Aava “osato” sfidare i taleban usando una delle armi che essi più temono: le parole. Aveva troppe “colpe”, Sushmita Banerjee: era indiana, era una donna che poco si adattava alle loro regole mortifere, ed era una scrittrice. La sua storia, la sua fuga da un mondo ridotto a un asfittico carcere, era diventata prima un best seller in India (“A Kabuliwalàs Bengali Wife”, uscito nel 1995), poi addirittura, nel 2003, un film “Escape From Taliban”. I guerriglieri afghani hanno memoria lunga. Non perdonano. Come testimonia la storia di Malala, la ragazzina di 14 anni che lottava per il diritto allo studio e che è stata “ripagata” dagli uomini col turbante nero a colpi di pallottole. Sushmita Banerjee è morta così, crivellata dai colpi. I “nemici” hanno fatto irruzione nella sua abitazione, provincia di Paktika, nel sud est del Paese. Hanno legato il marito e gli altri familiari presenti. Hanno preso Sushmita, le hanno sparato fuori dalla porta di casa. Sono arrivati a strapparle i capelli. Non paghi, hanno preso il suo cadavere e lo hanno scaricato vicino all’ingresso di una madrassa, una scuola religiosa. Il loro modo per “marchiare” le vittime.Sushmita Banerjee, originaria di Calcutta, aveva 49 anni, si era convertita all’islam e lavorava come operatrice sanitaria. Era sposata con un uomo di affari afghano che viaggiava spesso in India. Aveva deciso di seguirlo, catapultata in un mondo a lei incomprensibile. «Sono andata a vivere un pittoresco villaggio nel 1989 – aveva raccontato in un articolo pubblicato sulla rivista indiana,
Outlook magazine –. Ma la vita lì, almeno fino al 1993, era ancora possibile». Poi il buio. Il dominio dei taleban. «Il burqa era obbligatorio. Ascoltare la radio o un registratore era vietato. Alle donne non era permesso di andare in un negozio. Impossibile uscire di casa da sole. Ogni donna dovevano avere il nome del marito tatuato sulla mano sinistra». A Sushmita non resta va altra via di scampo: la fuga. «Riesco a raggiungere il Pakistan – ha scritto, rievocando quei momenti –, pagando per un passaggio in macchina. Ma a Islamabad rimango bloccata: non avevo con me il passaporto». I cognati la rintracciano La riportano nella sua casa-prigione. La donna non si arrende. Quando suo marito va a Calcutta per motivi legati al suo lavoro, cerca di raggiungerlo. Le viene impedito. Tenta una nuova fuga che, questa volta, si “arena” a Kabul. Per Sushmita inizia un ennesimo calvario. Viene interrogata dai taleban, reclusa per ore. Alla fine riesce a convincere i carcerieri: è indiana, deve essere restituita al suo Paese. La scrittrice torna così finalmente a Calcutta. Passano gli anni, e Sushmita Banerjee pensa che il passato sia stato seppellito. Torna in Afghanistan. Il motivo è semplice: vuole continuare a condividere la vita con il marito. Ma i taleban non perdonano. Hanno memoria lunga. Per Sushmita, questa volta, non c’è stata via di fuga.