Prevedibile eppure imprevisto. Il recente arresto nella paraguayana Ciudad del Este di un presunto qaedista, accusato di pianificare un attentato kamikaze sul suolo americano, ha fatto scorrere un brivido di terrore sulle schiene di analisti e responsabili della sicurezza. Da mesi, tuttavia, il Dipartimento di Stato Usa aveva elevato l’allarme terrorismo nella Triple Frontera, in cui Argentina, Brasile e Paraguay si uniscono, scomponendosi in un mosaico di negozi, banche, agenzie di cambi e bellezze naturali. Nessuno si aspettava, però, che l’infiltrazione di al-Qaeda nella regione fosse già in fase tanto avanzata. L’attacco suicida – affermano fonti di intelligence – sarebbe avvenuto nel Cono Sud, dunque non direttamente negli Stati Uniti. Il dubbio che fosse solo una “prova generale” di un ben più cruento spettacolo, però, resta. Anche perché l’ondata di narco-violenza, negli ultimi anni, si è abbattuta sull’America Latina rappresenta un’occasione ghiotta per il terrorismo di matrice islamista. Questo si insinua nelle pieghe del caos crescente, stringendo alleanze con i gruppi criminali locali. «La collaborazione conviene a entrambi – spiega ad <+corsivo>Avvenire<+tondo> Felipe Umaña, esperto del prestigioso centro studi di Washington Fund for Peace –: in cambio di una quota (consistente,
ndr) dei proventi del traffico di droga, gli jihadisti forniscono ai narcos armi e attrezzature, trovano clienti e canali alternativi di spaccio». Gli islamisti, ovviamente, si intrufolano nei punti deboli del Continente. Come la Triple Frontera, dove la presenza di agenti di Hezbollah, Hamas, movimento per il jihad islamico, al-Qaeda, al-Gama al-Islamiyah, al Muqawamah al Islamiyah è ormai documentata. La motivazione è logica. La regione è da sempre un crogiolo di traffici illeciti, dalla contraffazione, al commercio di droga, armamenti ed esseri umani. «La debole presenza statale e la legislazione alquanto lassista ne fanno l’habitat perfetto per lo sviluppo del mercato nero e di ogni genere di gruppi criminali», aggiunge Umaña. La sola Ciudad del Est, centro nevralgico dell’economia della “frontera”, produce 12 miliardi all’anno di transazioni in contanti. Il che pone la città al terzo posto nella classifica mondiale, dopo Hong Kong e Miami. Agli scambi legali si sommano quelli illegali, pari ad almeno 6 miliardi, secondo le stime Usa. Di cui «tra i 300 e i 500 milioni finiscono nelle tasche di Hezbollah», sottolinea l’esperto. Gli estremisti sciiti sono quelli maggiormente radicati. Cellule dell’organizzazione si sono stabilite qui fin dagli anni Ottanta, mimetizzandosi nel flusso di profughi libanesi e palestinesi in fuga dal conflitto a Beirut. Gli estremisti hanno proliferato all’ombra della comunità. Sfruttandone abilmente la rete per fare proseliti e raccogliere finanziamenti. Sono le possibilità di business – illecito – a spingere le varie sigle islamiste oltreoceano. Sulla scia di Benladen. Lo sceicco, a metà degli anni Novanta, volò fino al cuore della “frontera” insieme a Khalid Sheikh Mohammed – la mente degli attacchi dell’11 settembre 2001 – in cerca di fondi per la centrale del terrore. Nonostante la sfilza di arresti del 1999, il progetto sembra avere messo radici. Meno di vent’anni dopo, il suo sogno criminale sembra essersi avverato: la Triple Frontera è diventata il principale serbatoio di denaro del jihadismo fuori dal Medio Oriente. Naturale che gli Stati Uniti siano quantomeno preoccupati. Questo spiega le continue sollecitazioni a Argentina, Brasile e Paraguay perché estirpino il jihadismo nei loro territori. Appelli accolti in parte da Buenos Aires. L’unica delle tre nazioni della Triple Frontera ad aver inserito nel codice penale il finanziamento diretto a gruppi terroristi. Come pure la discreta collaborazione dei servizi di intelligence con i vicini in modo da individuare eventuali sospetti. Anche il Brasile ha intensificato i controlli nella zona di Foc de Iguazu. Il gigante latinoamericano ha, inoltre, appena approvato un decreto che aumenta le pene per chi ricicla denaro. Più problematica la vigilanza da parte del Paraguay, dati gli esigui mezzi a disposizione, la corruzione e la fragilità delle istituzioni. In ogni caso, almeno finora, le forze di sicurezza – locali e internazionali – non sono riuscite ad arginare la deriva. Anzi, il fermento nello scacchiere mediorientale e africano ha dato nuovo slancio ai gruppi jihadisti. «La situazione di certo non è migliorata», conclude Umaña. Ora come non mai Washington, a malincuore, deve dargli ragione.