«Attendevamo questo momento da molto tempo. Muhammar Gheddafi è stato ucciso. Ora è tempo che i libici costruiscano una nuova Libia unita». Sono le prime parole che il premier Mahmoud Jibril indirizza al Paese a poche ore dalla conferma che il rais è morto in attesa di proclamare ufficialmente la liberazione della Libia. Ma per molti Gheddafi era già trapassato. Nella Tripoli da poco liberata erano comparsi degli zerbini con la sua effigie disseminati sulle carreggiate e sui marciapiedi: per chi voleva passare di là era inevitabile calpestarli, così come su decine di muri crivellati dai proiettili delle armi pesanti erano apparsi graffiti e icone del rais con la faccia da topo, da coniglio, da serpente. Gli insorti avevano rimosso con rabbia l’immagine del padre-padrone che per quarantadue anni aveva tenuto la Libia sotto il pugno di ferro di un regime nato da una rivoluzione incruenta e terminato in un bagno di sangue e sopravvissuto grazie al culto della personalità e ad una sagace politica che abbinava concessioni a crudeltà inaudite. Ma lui, il Colonnello, aveva sette vite. Non lo trovavano, chi diceva fosse nel Sud, vicino al Ciad, chi a Bani Walid, chi fuggito nel Niger. Invece era a Sirte, da dove proveniva, in mezzo ai suoi. Stava lì, cocciuto e rintanato nell’ultimo ridotto che ancora resisteva, chiuso nel bunker della sua cupa voluttà dissolutoria, con l’illusione di consegnarsi alla Storia con l’immagine scintillante dell’eroe bello di fama e di sventura che muore in nome del suo popolo, come quell’Omar Mukhtar, di cui ostentò fiero il ritratto quando sbarcò a Roma nel giugno del 2009.Per porre fine alla rivolta libica cominciata a Bengasi a primavera e virtualmente conclusa già ai primi di settembre con la presa di Tripoli, mancava soltanto il corpo del rais, vivo o morto poco importava. Lui latitante, nessun Consiglio nazionale di transizione avrebbe mai potuto contare davvero su una legittimazione condivisa, né il processo di pacificazione si sarebbe potuto mettere in cantiere senza la certezza che Gheddafi non sarebbe risorto dalle ceneri per incitare i suoi fedelissimi alla rivolta.Tutti però ora si chiedono: che ne sarà della Libia? Diventerà un altro Iraq? O sarà una vera democrazia affacciata sul Mediterraneo? O forse una nazione in bilico fra un passato difficile da cancellare e un futuro che nessuna classe dirigente è preparata davvero a costruire? Nei mesi scorsi abbiamo avuto ripetute occasioni di avvicinare i vertici del Cnt, dal presidente Abdel Jalil a Jibril, espressione entrambi - se pure con sfumature assai diverse - del passato regime. Non sono uomini nuovi, ma potrebbero traghettare la Libia al di là del guado, ben sapendo che il mosaico etnico che Gheddafi teneva assieme (un po’ come lo teneva serrato finché è vissuto il maresciallo Tito), essenzialmente costituito da arabi, (a loro volta divisi in molti clan, tra cui predominano i Warfalla e gli Zintan insieme ai Qadhadfa, la tribù del Rais), berberi (quasi un quarto della popolazione) e tuareg, faticherà non poco a ricomporsi.Verosimilmente potremmo escludere la possibilità che in Libia si replichino le tensioni religiose esplose in Iraq all’indomani della caduta di Saddam Hussein: la Libia sunnita, a quanto se ne sa, non serba al suo interno quella bomba a orologeria che in Iraq fu la maggioranza sciita a lungo repressa da Saddam.Non a caso Jibril invoca una Libia nuova, unita e democratica. Economista, con un’educazione occidentale, egli sa e conosce pregi e difetti delle democrazie. Purtroppo non possiamo dire altrettanto del popolo libico: la stragrande maggioranza è composta da giovani e meno giovani che sono nati e cresciuti sotto il regime di Gheddafi. I vecchi, ammesso che ne sopravvivano, ricordano l’era coloniale o il ventennio di re Idris. Di uguaglianza, di Stato di diritto, doveri dei cittadini, prerogative del Parlamento, divisione dei poteri, in altre parole di quello che è – o dovrebbe essere – il pane quotidiano della democrazia essi non sanno nulla. Certo, mentre seguivamo passo passo la guerra da Bengasi, Ras Lanouf, Bin Jawad e poi ancora da Tripoli e Bani Walid ci eravamo accorti di come gli
shabab, i giovani insorti, avessero imparato in fretta ad assimilare i bisogni del mondo libero: fondavano giornali, facevano assemblee, divoravano <+corsivo>al-Jazeera<+tondo> e la
Bbc, ebbri di un futuro che gli eventi gli rovesciavano addosso, spesso a prezzo della vita. A Tripoli code notturne interminabili di automobili festeggiavano rumorosamente la fine di un’era durata un quarantennio. Ora però si tratta di ricostruire daccapo una nazione, di ricostituire un esercito, una forza pubblica, di formare un vero governo, di indire elezioni generali. E soprattutto di pacificare. Sapendo che tanti, tantissimi obbedienti servitori di Gheddafi cambieranno silenziosamente e rapidamente casacca e serviranno i nuovi padroni. Ma esiste un Paese al mondo dove ciò non sia accaduto?