giovedì 12 febbraio 2009
Dopo il risultato ambiguo delle elezioni (la Livni avanti di un solo seggio rispetto al rivale Netanyahu) sulla carta le destre hanno i numeri per comporre una coalizione, ma una maggioranza precaria. Ago della bilancia il leader dell’ultra-destra, Lieberman. Che per ora non si sbilancia.
COMMENTA E CONDIVIDI
Di qua o di là purché al governo. Avigdor Lie­berman, il leader del partito ultra-naziona­lista Israel Beitenu, arrivato terzo, con i suoi 15 seggi, alle elezioni israeliane, ha passato la gior­nata di ieri tra lo studio di Tipi Livni e quello di Benja­min Netanyahu. Livni ha raccolto il maggior numero di voti: il suo par­tito, Kadima, ha ottenuto, in base ai risultati ufficia­li, 28 seggi sui 120 della Knesset. Netanyahu, con il Likud, è arrivato secondo: 27 seggi. Kadima è una for­mazione di centro. Il Likud è una formazione di de­stra. Lieberman si è fatto due conti: con Netanyahu starebbe dalle parte per lui, (leader di estrema de­stra, intransigente e fortemente anti-arabo) più na­turale. Inoltre, una coalizione di tutte le destre (lai­che e religiose) godrebbe già, sulla carta, di una so­lida maggioranza di 65 deputati su 120. Problema? Un’alleanza di questo tipo, completamente sbilan­ciata a destra, difficilmente potrebbe funzionare in un Paese che non si può dimenticare della Cisgior­dania e che necessariamente dovrà ritrovarsi a ne­goziare con i palestinesi (prospettiva, questa, “ge­neticamente” rifiutata dai partiti nazionalisti) . Quin­di? Quindi, meglio dare un’occhiatina dall’altra par­te, quella dove sta la Livni, che ieri si è affrettata a con­vocare Lieberman chiedendogli di entrare un un go­verno di unità nazionale. Per la Livni, concludere un accordo con Israel Bei­tenu sarebbe un colpaccio. È ideologicamente, po­liticamente, culturalmente, e anche anagrafica­mente, molto distante dal leader arabofobico e po­pulista di Israel Beitenu, e questo potrebbe crearle non pochi imbarazzi. Ma l’attuale ministro degli E­steri, con la scaltrezza che l’ha contraddistinta nel­l’ultima ultima fase della campagna elettorale (a di­spetto di quanti le hanno sempre rimproverato una scarsa esperienza politica) potrebbe “vendere” la cooptazione di Lieberman nel suo governo come un atto di real politik volto a “salvare” il Paese da una pericolosa deriva a destra. Lieberman farà le sue valutazioni. Per ora, si è limi­tato a dire che, pur «preferendo un governo nazio­nalista », non ha ancora deciso con chi stare. «La scel­ta sarà difficile», ha annunciato, lasciando prevede­re lunghe contrattazioni sulla base di poltrone, mi­nistri, ministeri e pregiudiziali necessarie. Prima fra tutte, la riforma della legge sulla cittadinanza, che, nella sua visione, dovrebbe imporre agli arabi di giu­rare fedeltà a Israele come Stato ebraico. Inoltre, Lie­berman chiede la separazione della religione dallo Stato, il che è assolutamente inaccettabile per i par­titi della destra religiosa (sabato il capo spirituale Rabbi Ovadia Yosef ha paragonato per questo Lie­berman a Satana), come lo Shas, che pure nelle ele­zioni ha preso 11 seggi e che dunque chiederà di a­vere un adeguato peso in qualsivoglia esecutivo. La chimica difficile della destra lascia qualche spe­ranza ai laburisti di Ehud Barak. Il voto è andato de­cisamente male: solo 13 seggi che hanno fatto del La­bour, il partito alle radici dello Stato di Israele, con il fondatore Ben Gurion, la quarta formazione del Paese. Ma in tanti, «per il bene della pace», voglio­no ancora credere nella prospettiva evidenziata ie­ri da un editoriale di Haaretz, ossia la «fusione» di Ka­dima e del Labour in un solo gruppo parlamentare che avrebbe così 41 deputati e si qualificherebbe co­me asse portante di qualsiasi coalizione. «I due par­titi combinano moderazione e una decisa attenzio­ne alla sicurezza, e fra loro non vi sono differenze i­deologiche insormontabili», ha spiegato l’editoria­lista Aluf Benne. Ma resta solo un’ipotesi. Come un’i­potesi è quella che vedrebbe Livni e Netanyahu pro­tagonisti di un meccanismo a rotazione sulla pol­trona di premier durante i quattro anni della legi­slatura. Un po’ come accadde con il “patto di alter­nanza” Shamir-Peres del 1984. Possibilità che verranno valutate dal presidente Shi­mon Peres. Nei prossimi giorni avvierà le consulta­zioni per decidere a chi conferire l’incarico di pre­mier. Abitualmente viene scelto il leader del partito che ha ottenuto più voti, in questo caso la Livni; ma non è escluso che venga fatto il nome di Netanyahu, visto che la destra ha più seggi e quindi più chance di formare un governo. Chiunque verrà incaricato a­vrà 28 giorni (più altri 14) per mettere insieme una coalizione. Ma sbrogliare il «pasticcio» uscito dalle urne è compito tutt’altro che facile. Sia Tzipi Livni che Benjamin Netanyahu si sono proclamati vincitori di questa tornata elettorale: l’attuale ministro degli Esteri perché con il suo Kadima ha ottenuto più voti; il leader del Likud perché, sulla carta, ha i numeri per formare solide alleanze a destra (Ap)
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: