L'arrivo di aiuti umanitari nel campo profughi di Dibaga vicino a Erbil
La grande rotonda sulla superstrada da Erbil indica a sinistra per Mosul mentre sterzando a destra per una manciata di chilometri su una strada dissestata, fra campi appena seminati e qualche gregge di capre e pecore, si arriva a Dibaga: l’altro fronte. Se a Mosul si combatte, qui corre la prima linea dell’emergenza umanitaria, in una terra solcata da troppi confini.
Siamo formalmente in territorio iracheno, ma la bandiera del Kurdistan al centro del villaggio (5mila anime di agricoltori e pastori ) come il peshmerga di guardia al cancello del “Dibaga football camp” non lasciano dubbi sulla amministrazione curda su questi villaggi. Makhmur – cittadina pure lei da due anni amministrata dal governo regionale di Erbil – a una ventina di chilometri di distanza, è l’ultimo lembo di terra libera: proseguendo più in là, dall’alba del 17 ottobre, è guerra al Daesh.
Passato l’ingresso del “Dibaga football camp” le tende bianche dell’Acnur corrono come ordinati filari di alberi, mentre in buon ordine – le donne tutte velate a destra e gli uomini a sinistra del cassone del camion – un gruppo di profughi riceve 1.000 pacchi alimentari preparati da Focsiv. In mano il talloncino da consegnare ai cooperanti, ricevuto dalla direzione del campo. Oggi è il loro turno: mille famiglie, in un campo di 700 tende per circa cinquemila “displaced people”.
Abdullah deve essere uno dei primi arrivati dai dintorni di Mosul sei mesi fa. Come veterano della città dei profughi, mostrando una tessera plastificata, indica la riga con il numero 10, e ha il coraggio di protestare: «Siamo in tanti in famiglia, ma a tutti danno un solo pacco». Anche altri, esclusi oggi dalla lista, reclamano senza troppa speranza lo scatolone con 4 chili di riso, 2 di zucchero, due litri d’olio, lenticchie e fagioli. Protesta in fondo garbata, per chi è scappato a piedi dall’inferno del Califfato e ora cerca di sopravvivere in questo girone del purgatorio. Se ogni giorno la macchina delle Ong porta cibo, l’asilo per i bambini è ancora in costruzione. «Finirà tra due settimane. Non abbiamo più nulla e manca tutto il resto: scuola per i figli e medicine». A cinquanta chilometri si combatte per strappare al Califfato la capitale, ma un futuro diverso pare ancora irreale: «Ce ne andremo quando avremo l’ordine dalle autorità», dice dietro enormi baffoni neri Hared Hamed.
Nessuna osa domandarsi quando e dove se ne andranno, i 32mila profughi accolti nei cinque campi profughi di Dibaga, cresciuti come funghi in meno di anno. Tutti vengono dai villaggi attorno a Mosul. I loro mugugni non turbano l’ordinata distribuzione dei pacchi, una brezza leggera in questa calma piena di attesa, prima che arrivi l’onda di piena di chi fugge da Mosul: un milione e 200mila, stimano le Nazioni Unite, mentre le strutture di accoglienza sono in grado di ospitarne al momento 60mila nuovi arrivi. Altri campi sono già in allestimento a est come a ovest di Mosul, mentre altri sono in allestimento pure a sud. Nessuno sa prevedere le cifre, ne quando e dove potranno scappare, ma non sarà una fuga verso la libertà.
Nell’agosto del 2014 la regione autonoma del Kurdistan decise di aprire i check-point e le porte di Erbil ai “senza terra” della Piana di Ninive e del Sinjar. In città e nel Kurdistan erano già arrivati i fuggitivi della prima ora da Mosul quando il 9 giugno del 2014 cadde senza resistenza in mano al Daesh. Due anni dopo la capacità di accoglienza – già presenti in Kurdistan un milione e 800mila profughi su una popolazione locale di 5, 5 milioni e con una economia in recessione – si è prosciugata. Numeri da brividi che corrono fin dentro il quartier generale dell’Onu a Erbil, ma soprattutto ora, nella massa di famiglie in fuga, si temono le infiltrazioni di cellule dormienti del Daesh. Per questo sono stati previsti dei centri di identificazione per schedare le persone mentre l’acceso a Erbil è vietato o quasi. Già ora si riesce ad entrare a Mosul solo se un curdo residente a Erbil accetta di firmare per lui e divenire così il garante del profugo. Un’onda di piena in arrivo che spaventa non solo per le dimensioni.
Ma “Dibaga football camp”, può essere comunque un porto franco dove mettere in salvo almeno la speranza di ricominciare. Karam Halid, 20 anni, è scappato tre mesi fa da Mosul, dopo 21 mesi sotto il tallone del califfo dal turbante nero. Lavorava come assistente in un orfanotrofio, ora fa parte dello staff della direzione del campo. Quando gli uomini di al-Baghdadi sono arrivati a Mosul «tutto si è fermato, sono finite le scorte alimentari e hanno iniziato a indottrinare i bambini. Poche settimane dopo hanno portato alla madrassa anche orfani yazidi e sciiti: 23 bambini sequestrati dalla famiglie e quattro handicappati». La ferra amministrazione del Califfato accettava solo bambini segnalati dal tribunale islamico, mentre negli uffici «non si poteva nemmeno parlare con le colleghe, tutte costrette a indossare il niqab. Noi uomini dovevamo arrotolare i calzoni fino a metà polpaccio e farci crescere barba e capelli».
Stravolti pure i programmi di scuola: «Ai bambini insegnavano solo come montare e smontare una pistola o un kalashnikov, mentre hanno convertito a forza al sunnismo bambini sciiti. I primi giorni – racconta Karam – i bambini piangevano, ma dopo poche settimane di lavaggio del cervello erano loro che chiamavano noi infedeli». Karam è un sunnita osservante, ma «loro hanno un’altra religione. L’islam per me è pace e tolleranza. Loro vogliono imporre un islam che è terrore e violenza. Ma il vero islam è il contrario». Così Karam rifiuta di compiere il rito di affiliazione al Daesh ed è costretto ad abbandonare il suo lavoro: «Mi hanno sequestrato tutto quello che avevo, compresi i pochi risparmi in banca». La fuga a piedi per 10 ore la sola scelta. «Siamo partiti in tre: la guida e un altro fuggitivo. Gli altri due sono stati uccisi nel tragitto». Non aggiunge dettagli, ma riesce ancora a sorridere: «We need peace and freedom», conclude in inglese. Dibaga camp, prima fermata dopo l’inferno di Mosul.