Per le strade irachene si avverte il cambiamento, con una ridotta visibilità delle truppe statunitensi e un maggior schieramento delle forze di sicurezza nazionali irachene (ISF). I mezzi sono spesso gli stessi, ma sono diverse le divise e l’atteggiamento dei soldati – spesso decisamente meno marziale ma più amichevole – che controllano i numerosissimi checkpoint. Mancano poche ore al ritiro delle forze militari statunitensi dal controllo diretto delle città, previsto per il 30 giugno, la potenza militare che Washington ha quaggiù dispiegato per anni sembra farsi più pudica e quasi celarsi. Un ritiro che riduce ulteriormente l’esposizione quotidiana lungo le strade delle truppe americane – e di conseguenza ne diminuisce la vulnerabilità agli attacchi – ma che di converso chiede alle forze irachene l’assunzione di rischi e responsabilità ben maggiori di quelle avute finora. È questa una delle prove decisive per l’Iraq uscito dall’invasione anglo-americana del 2003 e forgiatosi attraversando anni di spaventosa violenza e anarchia. La capacità di mantenere un quadro di sicurezza accettabile basandosi principalmente sulle proprie forze, e di sostenerla nel tempo garantendo lo svolgimento di regolari nuove elezioni politiche generali nel gennaio 2010, sarà decisiva. I segnali di questi ultimi mesi non sono del tutto incoraggianti. Dalla primavera c’è stata una recrudescenza degli attacchi, non solo a Baghdad ma in gran parte del Paese. Pochi giorni fa, a Sadr City, una delle aree più problematiche della capitale, una spaventosa esplosione ha mietuto dozzine di vittime, e nuove vittime si registrano quotidianamente. Anche a Falluja, la situazione sta peggiorando. Proprio questa città simbolo della resistenza sunnita e delle violenze, nelle cui strade nei primi anni dell’occupazione i soldati americani avevano combattuto una sanguinosa battaglia, era poi divenuta uno dei simboli della rinascita irachena. Nel 2008 il clima di concordia fra sunniti, sciiti e americani aveva permesso il lancio di molti programmi di ricostruzione, con un allentamento delle ferree misure di sicurezza che separavano di fatto la vita degli 'internazionali' da quella della popolazione locale. Ora, purtroppo una serie di attacchi ha riportato la città a un clima di tensione e insicurezza, e si è ritornati agli usuali livelli di protezione. È però diversa la lettura di questo momento di passaggio e di queste difficoltà. Negli ambienti governativi iracheni si ostenta un certo ottimismo: le difficoltà ci sono, ma esse non pregiudicheranno il cammino dell’Iraq, e il Paese saprà far fronte comune contro una eventuale recrudescenza degli attacchi. Il primo ministro al-Maliki ha costruito il proprio prestigio e il successo elettorale sulla capacità del governo di mantenere – e se necessario imporre con la forza – l’ordine e la sicurezza. Un bisogno molto più avvertito dagli iracheni rispetto alle discussioni sull’assetto federale dello stato, o sul bilanciamento di poteri fra centro e governatorati provinciali. A Baghdad c’è voglia di normalità, di frequentare senza timore i mercati, di imbottigliarsi nel traffico caotico con il rischio di perdere solo del tempo, non la vita, di cenare all’aperto lungo il Tigri con gli amici o la famiglia senza paura dei cecchini. Anche per sfuggire alla anorma-lità, a volte un poco alienante, delle onnipresenti muraglie di cemento armato di cui la città è piena, dei convogli militari che fendono il traffico civile, dei posti di blocco, delle strade chiuse, del rumore continuo degli elicotteri, degli allarmi e degli spari. Negli ultimi due anni, grazie alla cosiddetta 'dottrina Petreus' (ossia la nuova strategia adottata dall’allora comandante militare statunitense, generale Petreus) e alla rottura dell’alleanza fra jihadisti stranieri e capi tribali sunniti, l’Iraq ha vissuto una progressiva, sia pur parziale, normalizzazione. E il governo al-Maliki è riuscito a beneficiare di ciò, capitalizzando un forte seguito elettorale. Le difficoltà di questi ultimi mesi sottolineano, per altri commentatori, la fragilità e la precarietà di questo miglioramento. La caduta dei prezzi del petrolio e la crisi internazionale hanno ridotto le disponibilità finanziarie del governo. Meno soldi significa anche meno risorse per assicurarsi la lealtà dei capi tradizionali, o delle milizie sunnite che avrebbero dovuto essere integrate nelle forze di sicurezza, ma che lo sono state solo in parte. In particolare i cosiddetti Sons of Iraq, milizie tribali che sono state decisive per sconfiggere al-Qaeda e i combattenti jihadisti e che sono state incorporate solo in minima parte, a dispetto di quanto precedentemente concordato. Preoccupa anche una certa deriva autoritaria del primo ministro. E a essere guardinghi non sono solo i curdi o i sunniti. La grande alleanza elettorale sciita è ormai a pezzi, con una crescente divaricazione fra il partito dawa del primo ministro e l’Isci, il Consiglio islamico supremo del-l’Iraq, che una volta era il movimento sciita più forte e organizzato, ma che si è fortemente indebolito. In vista delle elezioni di gennaio, in molti ritengono, che l’Isci o il movimento sciita radicale di Muqtada al-Sadr cercheranno di 'complicare' la vita al primo ministro, per paura di essere sempre più marginalizzati politicamente. Anche molti parlamentari non apprezzano il decisionismo del primo ministro, in particolare i suoi rapporti troppo stretti con i comandanti militari, a cui al-Maliki si rivolge spesso direttamente, senza seguire i canali gerarchici usuali. Non sorprende quindi che il parlamen- to abbia di fatto privato di fondi il Consiglio nazionale di sicurezza, un organo strettamente collegato al governo e che sfuggiva al controllo parlamentare. Sempre in nome della sicurezza, si è deciso che le forze speciali anti-terrorismo e la Baghdad Brigade – ossia le forze militari che devono proteggere la zona internazionale, dove è concentrata la presenza delle ambasciate e della popolazione occidentale – rispondano direttamente al primo ministro. Un legame preoccupante per alcuni, ma che negli ambienti governativi viene giustificato sottolineando l’esigenza cruciale di garantire la sicurezza dell’area in cui risiede la maggioranza dei diplomatici e degli stranieri impegnati nell’attività di ricostruzione presenti a Baghdad. E proprio il passaggio agli iracheni del controllo della Zona verde suscita inquietudine, tanto più che si pianifica una progressiva riduzione delle strade vietate al traffico civile, nell’ottica di una graduale normalizzazione. Preoccupazione non tanto per la sicurezza personale, ma soprattutto per gli effetti che il successo di un attacco terroristico di rilievo potrebbe avere. Per fare un esempio: a lungo le Nazioni Unite sono state assenti dall’Iraq, dopo i duri colpi inferti loro dai jihadisti; ora sono tornate, con prudenza, a operare direttamente nel Paese. Un attentato contro di esse compiuto dopo il trasferimento della sicurezza ai soldati nazionali ne provocherebbe il probabile nuovo abbandono, con tutte le conseguenze negative. Per quanto suoni cinico, tanto le forze di sicurezza quanto i nemici della stabilità (e non si tratta necessariamente solo di jihadisti) sanno che gli obiettivi occidentali catturano l’attenzione dei media internazionali molto più delle vittime irachene. Colpire duramente una rappresentanza diplomatica o degli operatori impegnati nella ricostruzione significa infliggere all’Iraq un danno che va ben oltre l’evento in sé. Significa bloccare investimenti stranieri, ridurre la cooperazione, dare l’idea di un paese incapace di uscire dalla crisi. Per questo, per quanto intrusive possano sembrare, le eccezionali misure di sicurezza saranno mantenute nella Zona verde. E ciò che è 'normale' a Baghdad, continuerà a sembrare molto 'anormale' in buona parte del mondo.