Impiccagione, lapidazione, sospensione della sentenza. La vita di Sakineh Mohammadi Ashtiani è una carta in più da giocare nella serrata partita a poker fra i vari poteri dello Stato iraniano. Da una parte, c’è il sistema giudiziario agli ordini diretti della Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. Dall’altra, c’è il governo del presidente Mahmoud Ahmadinejad. In mezzo, Sakineh, accusata di adulterio e di complicità nell’omicidio nel marito e, per questo, condannata a morte nel 2006. Quattro anni interminabili, tra ricorsi e sospensioni. A portare allo scoperto la situazione, ha contributo due mesi fa la pressione internazionale per salvare la detenuta, rinchiusa nel carcere di Tabriz. A cui i “due fronti” della Repubblica islamica hanno reagito in modo opposto. La magistratura – insofferente alle interferenze straniere – propende per la linea dura. Cioè per una punizione esemplare “adultera assassina”, come la definisce la stampa più ortodossa. L’esecutivo, invece, temporeggia: la vita di Sakineh potrebbe essere usata per avere qualche concessione dai partner occidentali. La serie di affermazioni, smentite e contraddizioni – apparse lunedì sui giornali di Teheran e rimbalzate, ieri, sui media di tutto il mondo – ne sono l’ultima, eloquente dimostrazione.Lunedì, durante una conferenza stampa, il procuratore generale e rappresentante del potere giudiziario, l’ultraconservatore Gholam-Hossein Mohseni-Ejei ha dichiarato che Sakineh sarebbe stata «impiccata per l’omicidio del marito e non lapidata per adulterio», come previsto dalla prima sentenza. «Secondo il verdetto della Corte, lei è stata condannata per omicidio e la sua morte ha la precedenza sulla sua punizione» per aver commesso adulterio, ha detto. E, ha aggiunto: «La questione non deve essere politicizzata: il potere giudiziario non può lasciarsi influenzare dalla campagna di propaganda dell’Occidente». Le affermazioni – riprese dal
Teheran Times – hanno avuto l’effetto di una deflagrazione. Intensa e breve. Perché poco dopo, il portavoce del ministro degli Esteri Ramin Menman-Parast si è affrettato a smentire il tutto. Il procedimento giudiziario – ha detto – «non è stato completato e il verdetto finale sarà annunciato dopo la fine di questa procedura». La due accuse – ha concluso – di assassinio e adulterio, devono ancora essere esaminate. Secondo quanto riportato dalla tv iraniana, la sentenza definitiva sarà resa pubblica fra due settimane. Fino ad allora, la sorte di Sakineh resta incerta. Il figlio, Sajjad Ghadarzadeh, è scettico su un ipotetico dietro front del regime. Sabato, in ogni caso, il legale della donna, Javid Hutan Kian, si recherà nella prigione di Tabriz per un colloquio con le autorità giudiziarie. Il giovane ha, poi, rivolto un nuovo appello all’Italia «affinché salvi la madre». La Farnesina ha risposto garantendo che «continuerà ad adoperarsi col massimo impegno» per evitare l’esecuzione. D’altro canto, il portavoce del ministro degli Affari Esteri ha sottolineato che: «Le procedure legali non sono ancora esaurite. Auspichiamo che la condanna possa essere revisionata». Mentre il ministro degli Esteri Frattini ha detto: «Non è nell’interesse dell’Iran uccidere Sakineh». Anche i musulmani moderati in Italia hanno rivolto un invito alla clemenza e numerose anche le reazioni del mondo politico contro l’esecuzione. Dello stesso tipo, le dichiarazioni dei rifugiati iraniani nel nostro Paese. Oltre che dalla mobilitazione internazionale, il destino di Sakineh, però, dipende soprattutto dai rapporti di forza interni al regime. Già a luglio, il presidente Ahmadinejad aveva smentito il portavoce della magistratura. In un’intervista all’Abc, il leader aveva negato la condanna, ribadendo che il processo era ancora in corso. La stessa dinamica si è ripetuta tra lunedì e ieri. Nelle prossime due settimane, si vedrà se preverrà la linea “morbida” di Ahmadinejad o quella radicale della Guida suprema e dei suoi fedellissimi che domininano il potere giudiziario.