Ousmane (sulla sedia al centro) con la sua gente a Gao
«Se sei un giovane tuareg non è che tu abbia troppa scelta. Quasi tutti i miei amici hanno imbracciato le armi. Io ho avuto la fortuna di andare a scuola e quindi posso portare avanti il “combattimento” in modo diverso: è per questo che quando ho finito di studiare ho iniziato a lavorare nella cooperazione ». Alto, voce calma, il copricapo tradizionale a incorniciargli il volto, Ousmane Ag Hamatou racconta ad Avvenire la sua storia, che è anche quella di un popolo intero, i tuareg, il popolo del deserto da sempre discriminato in Mali e che ha dovuto lottare per i propri diritti negati.
Coordinatore nel suo Paese dei progetti dell’Ong italiana Lvia (socia della federazione Focsiv), il 37enne Ousmane ha scelto un’altra strada, sostituendo le armi con la costruzione di percorsi di pace e sviluppo. «Oggi i ragazzi hanno per idoli i combattenti, credo invece che sia giusto dare loro un esempio di impegno per la gente». Nato a Tarkint, a 200 chilometri dalla città di Gao, Ousmane ha vissuto sulla sua pelle il dramma in cui è precipitato negli ultimi anni il Mali, Paese crocevia del Sahara in cui si intersecano le storie di popoli antichi. I suoi tuareg hanno combattuto a lungo, dalla decolonizzazione in poi, per ottenere l’indipendenza dal governo “sudista” di Bamako, accusato di disinteressarsi del Nord.
«L’ultima ribellione tuareg, quella del 2012, è stata infiltrata da movimenti jihadisti – spiega Ousmane –. Il 31 marzo del 2012, pochi giorni dopo il golpe militare che si era verificato a Bamako, ero a Gao quando la città è caduta nelle mani dei tuareg del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad, appoggiati però da gruppi radicali islamici. I gruppi armati hanno conquistato anche le altre principali città del Nord. L’intenzione degli jihadisti era di imporre la sharia e restringere le libertà, anche con l’aiuto di miliziani arrivati dai Paesi vicini. Questi estremisti avevano sicuramente più soldi e più potere dei movimenti tuareg».
Con l’esercito maliano in rotta, le città senz’acqua e cibo, luoghi pubblici saccheggiati, Ousmane decide di fuggire con moglie e quattro figli in Burkina Faso, dove viene accolto da un collega di Lvia. Qui resta fino al luglio 2013 «da sfollato, una condizione durissima», sospira ancora oggi al ricordo, e prosegue lì il suo lavoro per l’Ong italiana. Nel frattempo, nel gennaio 2013 le forze francesi intervengono in Mali a difesa del governo per impedire ai jihadisti l’avanzata verso sud. «Da allora i soldati inviati da Parigi presidiano le grandi città, ma gli estremisti si sono organizzati in piccoli gruppi nelle zone rurali. Da qui lanciano i loro attacchi contro le postazioni francesi», spiega Ousmane. Il conflitto “a bassa intensità” continua a mietere vittime, oltre che a impedire lo sviluppo di servizi di base per la popolazione. «Quello attuale resta un contesto di crisi, con un governo assente» sottolinea ancora Ousmane.
A maggio il numero di maliani sfollati nei Paesi vicini ha raggiunto quota 144mila, mentre gli sfollati interni sono oltre 50mila. Gli accordi del giugno 2015 tra tuareg e governo prevedono ampia autonomia per il Nord, dove abitano 7-8 milioni di persone, «ma la popolazione resta vulnerabile, sia perché vive in una zona desertica sia perché è abbandonata dalle autorità centrali». Nella regione di Gao, dove la malnutrizione supera il 15%, neanche una persona su tre riesce ad avere acqua da bere. «Per questo uno dei principali progetti di Lvia è focalizzato sull’accesso all’acqua – ribadisce Ousmane –. In tre anni abbiamo messo a disposizione cento pozzi per 85mila persone e lavorato contro la malnutrizione. Inoltre abbiamo rimesso in sesto molte scuole e offerto supporto per il reinserimento degli sfollati». E per il futuro in cosa spera Ousmane? «Non ho sogni più importanti della pace. Perché con la pace puoi sperare tutto».