Vann Nath osserva un gruppo di giovani cambogiani soffermarsi di fronte ai suoi quadri appesi in una sala del ristorante Kith Eng a Phnom Penh. Gli sguardi attoniti mostrano una certa diffidenza riguardo il realismo delle scene raffigurate sulle tele: «Comprendo la loro incredulità, ma tutto ciò che ho dipinto è accaduto veramente » , dice Nath, mentre ci accompagna nella stanza dove vive e lavora. Lui è uno dei 14mila khmer imprigionati a Tuol Sleng, la famigerata S- 21 ( ex liceo della capitale trasformato in centro di detenzione politica), il luogo in cui venivano interrogati i presunti oppositori al regime di Pol Pot tra il 1975 e il 1978 ( diretto da quel Duch, da febbraio messo sotto processo dal tribunale allestito in collaborazione con l’Onu per i crimini del passato regime). Di quelle migliaia di oppositori, solo nove sopravvissero. Da allora, Nath dedica la sua vita a testimoniare la propria terribile esperienza, resa ancora più tragica dal fatto che molti di quegli internati erano autentici simpatizzanti del nuovo governo ( di cui non conoscevano ancora la ferocia), sospettati però di non essere sufficientemente leali verso la dirigenza.
Quando e perché è stato arrestato? Venni catturato alla fine del 1977, ufficialmente per aver offeso l’Angkar ( il Partito comunista al potere). Ricordo che per settimane intere cercai di ripercorrere ogni mia parola, ogni mio gesto cercando di risalire all’attimo in cui avrei commesso qualcosa che provocò il mio arresto, senza però riuscire a individuarlo. Ero un artista, e questo probabilmente bastava per essere catalogato come potenziale nemico del popolo.
Delle 196 prigioni esistenti in Kampuchea Democratica (il nome dato al Paese dal regime), la S- 21 è stata quella in cui vi fu il maggior numero di vittime. Chi vi entrava poteva uscirne solo morto. Che cosa la salvò? Fu Pol Pot a salvarmi! ( ride, ndr). Sì, è vero, Pol Pot ha indirettamente fatto sì che scampassi alla morte. Duch aveva notato la mia abilità artistica e Nuon Chea ( il numero due del regime) aveva commissionato un monumento raffigurante Pol Pot in marcia davanti a un gruppo di rivoluzionari. Avrebbe dovuto essere costruito al posto del Wat Phnom ( l’antico tempio che sorge sulla collina che dà il nome alla capitale). Nel frattempo dovevo dipingere ritratti di Pol Pot.
Ha mai incontrato il dittatore? Mai. L’ho visto solo in fotografia.
Il regime di detenzione è sempre stato così brutale? No, verso la fine del 1978 le condizioni si fecero improvvisamente più rilassa- te, e non c’erano quasi più torture. Anche le guardie si mostravano più gentili. Penso che i vertici khmer avvertissero l’imminenza della guerra con il Vietnam e cercava appoggi all’estero.
Dopo la sua liberazione ha dipinto quadri che raffiguravano scene di vita quotidiana all’interno della prigione. È stato testimone diretto di tutto ciò che ha rappresentato? La maggior parte delle scene che dipingo le ho viste direttamente: i prigionieri sdraiati e incatenati, quelli stremati e affamati, le unghie strappate durante gli interrogatori, i morsi dei serpenti o degli scorpioni, le scosse elettriche. Sentivo le urla di dolore, i pianti dei neonati e delle loro madri. Vedevo i prigionieri caricati sui camion e portati a Choeung Ek. I camion tornavano vuoti e tutti capivamo che fine avremmo fatto, come gli sventurati che vi erano saliti. Altre scene, invece, mi sono state raccontate da sopravvissuti, come il dipinto del khmer rosso che uccide un neonato sbattendolo contro un albero.
Pensa di essere obiettivo nelle sue rappresentazioni pittoriche o ha in qualche modo caricato i toni allo scopo di denunciare quei crimini? È una domanda che continuo a farmi: sono stato 'onesto'? Non so. Per ciò che ho visto, posso dire di sì.
Ha mai incontrato i suoi carcerieri? Sì. Ho incontrato Him Huy. Ha detto che se non avesse fatto quello che gli era stato ordinato di fare, sarebbe lui stesso stato ucciso. Ma ricordo che nei suoi occhi non vedevo alcuna pietà per i prigionieri da lui torturati.
Il mese scorso è cominciato il processo ai dirigenti superstiti di Kampuchea Democratica. Che effetto le ha fatto vedere Duch, il direttore della S- 21, alla sbarra? Non ho provato odio, voglia di rivalsa. Voglio solo capire quale sia stato il meccanismo che ha prodotto tale regime, tale odio del presunto nemico. Voglio capire. Non voglio vendetta. Penso di avere diritto a una spiegazione. Non mi interessa neppure che vengano condannati. Fosse per me li lascerei liberi, a patto che diano spiegazioni sulla loro condotta. Perché è stato fatto tutto questo? Solo così potremmo evitare il ripetersi di queste tragedie. Voglio che le future generazioni siano immuni da questi pericoli. Ma servono risposte. Se il processo si limita solo a condannare, allora è stato tutto inutile. Alcuni quadri realizzati da Vann Nath, nei quali rivivono i drammatici momenti dell’esperienza vissuta nella prigione S-21 Il pittore Vann Nath, uno dei nove cambogiani sopravvissuti alla detenzione nella prigione S-21.