Fino a febbraio, Mohammed Salaheddine Zarem era l’ambasciatore libico in Francia. La sua defezione dal regime di Gheddafi, il 22 di quel mese, era giunta a sorpresa e con grande scalpore attraverso un comunicato firmato assieme al collega presso l’Unesco, Abdoulsalam El Qallali: «Annunciamo al popolo libico, alla nazione araba e alla comunità internazionale il nostro sostegno al popolo nella sua rivolta contro la macchina d’oppressione e d’aggressione».
Cosa prova in queste ore?Sono felice, e non sono il solo. Siamo tutti talmente felici di liberarci di questo grande tiranno dopo quattro decenni di dittatura.
Muammar Gheddafi non è stato ancora catturato…È vero, ma ormai non abbiamo più timori. Credo sia nascosto come un topo in un bunker sotterraneo.
Cosa spera per la Libia?La creazione di uno Stato democratico, con una separazione dei poteri e una stampa libera. Ma occorrerà innanzitutto garantire la sicurezza interna. Credo che il Consiglio nazionale di transizione sia ben preparato a questo livello, soprattutto a Tripoli.
È pronto a tornare in Libia?Sì, molto rapidamente, già nelle prossime settimane. È la mia vita, il mio Paese.
Spera che Gheddafi venga giudicato?Certamente. Deve essere giudicato in pubblico davanti a tutti. Dovrà rispondere di crimini di ogni tipo. Dai massacri fino agli espropri per arricchire il suo clan. Prima davanti ai libici, per tutto ciò che ha preceduto la rivoluzione, compresi gli omicidi commessi all’estero dalla squadra speciale che aveva creato per perseguitare chi era fuggito via, anche a Roma, Londra, in Francia e in Germania. Poi, davanti alla Corte penale internazionale.
La nuova Libia dovrà guardare verso l’Europa?Sì, ed occorrerà privilegiare le relazioni soprattutto con l’Italia e la Francia, a cui dobbiamo essere riconoscenti per il loro ruolo. Senza la scelta rapida del presidente Nicolas Sarkozy, Bengasi sarebbe stata massacrata, rasa al suolo. Ma anche l’azione italiana è stata determinante.
Con quali sentimenti il popolo libico guarda oggi all’Italia?Con sentimenti positivi. Ho personalmente molti amici ed è un Paese amico. I fatti della colonizzazione appartengono a generazioni del passato. È il Paese europeo più vicino alla Libia e le buone relazioni debbono continuare, soprattutto adesso.
Come ricominciare su buone basi?Occorre interrompere ciò che Gheddafi ha fatto fino a queste ultime settimane, ad esempio alimentare direttamente l’immigrazione illegale. Il rais ha costretto tante persone africane in miseria ad imbarcarsi su mezzi di fortuna verso Lampedusa e la Sicilia. C’è Gheddafi dietro tutta la folla di gente che ha preso il mare nel 2011 dalle coste libiche dell’Ovest. Tutto questo deve finire e occorre intraprendere una buona cooperazione su ogni fronte.
A proposito degli sbarchi, Gheddafi aveva una logica precisa?Sperava forse che l’Italia si sarebbe tirata indietro dalla coalizione internazionale. In generale, da tempo, la sua unica logica umana era «O con me o faremo di tutto contro di voi». Aveva perduto ogni razionalità politica. Aveva un’idea in testa e l’eseguiva. Stop. Si credeva al di sopra di tutto e di tutti, una specie di divinità. È diventato, secondo me, un malato mentale.
Lei conosce bene il Sahel. È da lì che provenivano quasi tutti i mercenari degli ultimi mesi?Gheddafi ha cominciato a distribuire contanti per tentare di comprare il sostegno di quante più persone possibile. Sono giunti mercenari fin dall’America Latina, ma il grosso proveniva in primo luogo dal Ciad, poi dal Mali e dal Niger. Non posso dire che le autorità dei Paesi africani abbiano cooperato, ma hanno lasciato fare. Con il sostegno di un maliano e di un ugandese, le operazioni di reclutamento di giovani erano dirette da Bechir Salah Bechir, il segretario personale di Gheddafi.
La conquista finale di Tripoli è stata pianificata dalla coalizione internazionale?No. Sono di Tripoli e resto in contatto telefonico con tanti. I giovani della capitale si erano organizzati e coordinati già da un po’ di tempo, ma mancavano mezzi e munizioni per sollevarsi contro l’enorme potenza di Gheddafi nella capitale. Pian piano, però, grazie ad alcuni libici, armi e munizioni sono penetrate progressivamente da Misurata, Bengasi, dalle montagne del Gebel Nefussa. A Tripoli, sono stati i giovani a sollevarsi, poi affiancati dagli ammutinati delle forze di Gheddafi.
Lo scorso 22 febbraio, cosa l’aveva spinta a voltare le spalle al regime?Innanzitutto, non sono un ambasciatore di carriera, ma un professore universitario. L’ho fatto nel ricordo di mio padre, che possedeva un giornale ed era una persona onesta. E per l’interesse dei miei figli, dei miei nipoti, del mio Paese. Occorreva cambiare. L’epoca dei dittatori deve finire.