«I rapporti sono tali che è molto difficile dire quante scintille erano necessarie e che cosa bisogna fare per spegnere questo incendio». Questa è in sintesi l’opinione del professor Artjom Ulunjan, direttore del Centro di studi balcanici, caucasici e centroasiatici presso l’Istituto di storia generale dell’Accademia russa delle Scienze. E, naturalmente, essa si riferisce allo scontro interetnico in Kirghizistan fra kirghizi e uzbeki, scontro che ha già provocato almeno 187 morti.
Professor Ulunjan, il Kirghizistan occupa con Uzbekistan e Tagikistan la valla della Ferghanà. Perché questa valle è divisa in tre e perché c’è una forte minoranza uzbeka in Kirghizistan?Per quanto riguarda quasi tutta l’Asia Centrale, si tratta di un territorio a macchia di leopardo. Se si cerca di individuare una maggioranza etnica e di creare uno Stato, inevitabilmente si dovranno sistemare delle minoranze. Prima dell’Urss qui c’erano due o tre emirati islamici e nell’islam tradizionale la nazionalità non conta: o si fa parte dell’ummah o se ne è fuori. Le etnie sono qui un’invenzione di Stalin che ha diviso la regione con frontiere assurde.
Ma perché questi conflitti sono così aspri proprio nella valle della Ferghanà?In questa valle, indipendentemente dai confini, si incontrano villaggi kirghizi, uzbeki, tagiki e si può dire che questo sia un luogo unico con una grande densità di popolazione, che in regime sovietico si è trovato diviso fra tre Stati. Dal punto di vista storico, qui sono molto forti le concezioni tradizionali della vita. Qui è forte l’islam tradizionale, proprio a livello di vita quotidiana. E in passato, prima dell’Urss, ciò tratteneva la popolazione locale dall’inscenare scontri interetnici.
Può avvenire che il già piccolo Kirghizistan si spacchi in due, nord, prevalentemente kirghiso, e sud, dove sono numerosi gli uzbeki?Non credo che sia attuale una spaccatura dello Stato. Vorrei ricordare che la popolazione di Osh è di 240mila abitanti, con i sobborghi 500mila. E tutta la popolazione del Kirghizistan arriva a 5,5 milioni, dei quali un milione migra costantemente, sono i cosiddetti "Gastarbeiter", o nomadi. E poi bisogna tener presente che nel Paese più del 66% sono kirghizi, e solo gli altri sono uzbeki, russi ecc.
Lei crede alla versione secondo cui i sostenitori del deposto presidente Kurnanbek Bakiyev fomenterebbero i disordini?È più che possibile.
La Russia, con l’aiuto dei suoi alleati nella Csi, si dice disposta a intervenire, ma per il momento non la fa, mantiene una posizione di attendismo. Come si spiega?Io sconsiglierei un intervento della Russia.
Perché?Perché la comparsa di truppe russe in Kirghizistan complicherebbe enormemente la situazione. Perché per ora, pur con tutta la tragicità della situazione, pur con il pazzesco numero di vittime, si tratta pur sempre di un conflitto locale nel Sud del Kirghizistan. È un problema del Kirghizistan. Non appena laggiù comparisse un contingente militare straniero, in questo caso russo, in primo luogo diventerebbe un precedente che allarmerebbe soprattutto Tashkent, E in secondo luogo ciò significherebbe un nuovo e più pericoloso livello del conflitto.
Che cosa ancora sconsiglia un intervento russo?La Russia in Kirghizistan dovrebbe svolgere un ruolo che assolutamente non le è proprio, quello del mediatore. La Russia non è mai stata un mediatore. Là dove ha fatto uso della forza, essa ha sempre appoggiato una delle parti in causa, come è avvenuto ad esempio in Abkhazia e Nord Ossezia, oppure nella Transnistria.