Nel suo studio, dove si entra senza bussare, Ernesto Olivero tiene un vecchio cartello che definisce ebrei, cristiani e musulmani figli di Abramo e di Dio. Dove, però, «Dio» è scritto con la lettera «o» davanti, cancellata da un tratto di penna. Odio. Riaffiorato in Terra Santa prima con l’omicidio di tre ragazzi ebrei, poi con la rappresaglia sul coetaneo palestinese arso vivo e infine la guerra, con i razzi che non risparmiano civili e bambini. Nel silenzio operoso dell’Arsenale della pace, che affascinò anche un laico come Norberto Bobbio, da oltre 30 anni casa degli ultimi, dei giovani volontari e della preghiera, cerchiamo una risposta e una speranza parlando con Ernesto Olivero, che continua a credere al dialogo e alla pace e negli uomini di buona volontà. È l’uomo che nell’aprile del 2002 condusse una mediazione coraggiosa e fondamentale per liberare la Basilica della Natività a Betlemme. Da qualche parte in un cassetto tiene la kippah appartenuta a Yasser Arafat e donatagli pochi giorni dopo quel gesto da San Giovanni Paolo II per ringraziarlo.
Si aspettava che ripartisse la follia della guerra?In Terra Santa non si è mai fermata anche se in alcuni periodi le armi hanno taciuto. Il clima di sospetto e paura, i sentimenti di odio e vendetta con cui crescono i bambini e i ragazzi israeliani e palestinesi sono armi pronte a colpire. È sufficiente un gesto folle perché le armi tornino protagoniste di un conflitto irrisolto.
Da dove si parte per riportare la pace?Una bambino che ha visto distruggere la sua casa e ha assistito all’uccisione del padre porterà dentro tutta la vita odio e risentimento, è necessario che qualcuno l’accompagni, si faccia carico della sua sete di vendetta. Quando si fa festa per la morte di un uomo perché nemico, quando si disprezza e si umilia l’altro fino a togliergli la dignità, quando non sappiamo far silenzio e piangere di fronte alla barbarie dell’uccisione di adolescenti semplicemente perché nati aldilà di un confine, significa che l’odio ha ucciso la coscienza. Da lì dobbiamo ripartire se vogliamo una pace duratura, che non sia solo tregua temporanea. Ripartire dall’educarci a vedere nell’altro non un nemico, ma un uomo, un figlio di Dio, un fratello scomodo e difficile la cui dignità umana non va calpestata per nessuna ragione.
Che speranze dà alla pace?La situazione è intricata e difficile, ma non ci sono alternative. Dobbiamo smettere di pensare che la pace sia un buon proposito o una dichiarazione di intenti. È una scelta precisa su cui i governi hanno il dovere di investire. La guerra ha eserciti pronti, addestrati e fabbriche pronte a produrre armamenti. Bisogna invece formare le coscienze alla pace, cercando strategie di mediazione e mettendo in campo energie umane ed economiche, preparandola con la stessa determinazione e professionalità con cui altri preparano la guerra. Gli strumenti a disposizione sono la prevenzione attraverso gesti di giustizia, dialogo ad oltranza, mediazione di organismi al di sopra delle parti come l’Onu, mobilitazione dell’opinione pubblica, politiche di pace che promuovono a ogni livello diritti umani, libertà fondamentali, sviluppo economico, accesso alla salute e istruzione per tutti, equa ripartizione delle risorse naturali. Serve un’Onu autentica, credibile, capace di frapporsi pazientemente in ogni conflitto, che abbia l’autorità morale di fermare le guerre perché è preoccupata di rimediare alle ingiustizie.
Non si vedono cortei per la pace. Perché? Oggi nei giovani c’è grande sfiducia e un senso di impotenza che pervade ogni cosa. Ci siamo abituati alla gente che muore di fame, ai milioni di profughi che scappano dai loro Paesi. La nostra coscienza si è assopita. Ritengo gli appelli e le manifestazioni per la pace importanti, ma credo che chi lavora per la pace debba farlo 24 ore su 24. C’è il tempo dei cortei e degli appelli, ma poi c’è la quotidianità che va vissuta in coerenza: questo ci chiede il Vangelo quando parla dell’operatore di pace. Che non scende solo in piazza a distribuire volantini, ma fa politica, non ruba, fa bene la sua professione, si appassiona a vivere per gli altri e a rispettarli. Il 4 ottobre a Napoli il Sermig, in collaborazione con la diocesi di Napoli e con l’adesione di quella di Torino, organizzerà il 4° appuntamento dei giovani della pace sul tema «Appuntamento con la coscienza». Mi piacerebbe venisse il Papa ad ascoltarli, è il mio sogno.
Come propone di arrivare a una riconciliazione in Terra Santa? Occorre capire le ragioni di entrambi e riconoscere il diritto dei due popoli ad abitare una terra propria, ma devono imparare a riconoscere oltre che i reciproci diritti la comune sofferenza perché non ci può essere pace dove si calpesta la dignità umana. A Madaba, in Giordania, all’Arsenale dell’Incontro, accogliamo piccoli disabili e quando i bambini danzano, giocano e cantano non capisci chi è cristiano o musulmano. La disponibilità a incontrarci, chinandoci insieme sulle fatiche degli altri ha permesso a compassione e solidarietà di vincere diffidenza e odio. Allora chiedo che capi saggi guardino all’esempio dei piccoli e si siedano a un tavolo con apertura di cuore e di mente a dialogare. Oggi più che mai servono persone autorevoli e buone che, come papa Francesco, siano capaci di indicare una strada e di percorrerla con coraggio, consapevoli che dove il bene si fa strada, il male si accanisce con tutta la sua violenza.
Non è un sogno? Per noi credenti è profezia. Malachia dice che i figli devono riconciliarsi con i padri e i padri con i figli. Isaia annuncia un tempo in cui le armi saranno tramutate in strumenti di lavoro. Non è utopia. Le guerre si possono evitare nella misura in cui cresce la giustizia, la solidarietà, la fraternità. Il tempo in cui non ci sarà più la guerra è più vicino di quanto ognuno di noi possa immaginare, perché il Regno di Dio è già nel cuore di ognuno. Il desiderio e il bisogno di pace, giustizia e verità è dentro ciascuno di noi. Si tratta di fargli spazio, nutrirlo e non permettere a nessuno di rubarcelo.