«I conti non tornano per nulla, perché siamo ancora ben al di sotto delle raccomandazioni dell’Ipcc, comprese nella fascia fra il 25% e il 40% di riduzioni reali. Anche per questo, Copenaghen si concentrerà molto più sulle regole che sulle cifre». A pensarlo è il ricercatore francese Emmanuel Guérin, direttore in Francia del “Programma clima” dell’Iddri, Istituto dello sviluppo sostenibile e delle relazioni internazionali: uno dei due principali organismi europei specializzati nella nascente «diplomazia ambientale».
Quali saranno i primi nodi da sciogliere in Danimarca?Occorrerà innanzitutto definire un insieme di regole per la misura e la verifica degli impegni e delle azioni di ciascun Paese. Tale sistema dovrà essere trasparente, ma senza apparire come una minaccia per la sovranità degli Stati. Esiste una tensione oggettiva in proposito e credo che quasi tutta la partita di Copenaghen si giocherà su questo fronte.
Si cercherà dunque di schivare il tema delle cifre?La discussione sulle cifre passerà probabilmente in secondo piano. Abbiamo ormai una cartografia abbastanza completa degli impegni e delle azioni in cifre di ciascun Paese. Nel negoziato in corso, esistono margini di manovra molto ridotti per le delegazioni a Copenaghen per modificare tali impegni, spesso già discussi nei diversi parlamenti nazionali.
A Copenaghen, arriverà pure chi contesterà il lavoro dell’Ipcc?Questo punto non rientrerà nei negoziati, ma l’autorità scientifica dell’Ipcc uscirà probabilmente un po’ intaccata. Soprattutto per via di un certo uso strumentale che si è fatto delle cifre dell’organismo dell’Onu, senza che da questo giungessero formali smentite.
L’obiettivo di creare un fondo mondiale per il clima è alla portata del vertice?Sulla sua creazione, esiste già una convergenza abbastanza ampia, dopo un’azione diplomatica energica guidata da importanti Paesi in via di sviluppo come il Messico. Gli Stati Uniti sono anch’essi d’accordo sul principio. Ma restano grandi incognite sul tipo di gestione di questo fondo e sulle sue reali risorse finanziarie.
Prevarrà la volontà di negoziare fino in fondo?In partenza c’è almeno la consapevolezza diffusa che si dovrà approdare a un accordo e sono rari i Paesi recalcitranti rispetto a quest’esigenza. Ma ogni Paese giungerà tenendo bene in mente la propria linea rossa da non oltrepassare.
C’è chi porterà anche della rabbia in valigia?Sì, soprattutto i piccoli arcipelaghi oceanici, per i quali la posta in gioco è la sopravvivenza. Ma si ritrovano già soli.
Fino a che punto è lecito restare ottimisti sull’esito finale?Nella misura in cui si fa largo l’idea, abbastanza realista, di scindere il negoziato in due tempi. A Copenaghen si cercherà un accordo politico quanto più profondo possibile, prima di aprire le porte a un successivo testo giuridicamente vincolante da adottare entro 6 mesi o un anno.
Restano rischi residui di uscite plateali dal tavolo dei negoziati?I più propensi a ipotetiche uscite di scena paiono le piccole isole e forse ancor più i Paesi emergenti. Il governo indiano, per esempio, non esclude una simile ipotesi.
Ci sarà davvero una triade di protagonisti a Copenaghen, ovvero Cina, Usa ed Europa?È una semplificazione eccessiva, ma è vero che le azioni di questi tre protagonisti saranno interdipendenti. In particolare, gli Usa sono concentrati sulla Cina, anche perché occorre mostrare all’opinione pubblica americana che Copenaghen non sfocerà su un accordo favorevole ai cinesi.