La vittoria dei nazionalisti del Bharatiya Janata Party (Bjp) non poteva essere più netta, la scelta di Narendra Modi per guidarne la corsa e in prospettiva il controllo del governo più indovinata. A segnalarlo i 334 seggi per l’Alleanza democratica nazionale contro i 60 dell’Alleanza progressista unita, ma soprattutto i 282 seggi per il Bharatiya Janata Party (Bjp) contro i 45 per il Partito del Congresso nazionale indiano che delle due coalizioni sono il nucleo. In pratica una maggioranza di centrodestra superiore al 60 per cento e che supera anche gli exit poll di inizio settimana. Una differenza abissale da confrontare con il totale di 543 seggi nella Lok Sabha, la Camera del popolo del Parlamento di New Delhi. Non solo un’inversione netta tra maggioranza e opposizione ma, ancor più, per il vincitore il più lusinghiero risultato di sempre e per il perdente il peggiore della sua storia che l’ha visto alla potere con poche pause dall’indipendenza nel 1947. Conquistata la totalità dei sette seggi di Delhi, il Bjp ha addirittura assediato Rahul Gandhi nel feudo elettorale di famiglia, Amethi nel-l’Uttar Pradesh, e nella città santa di Varanasi – proprio con Modi – ha umiliato Arvind Kejriwal, attivista a capo del Partito dell’uomo comune, che ha mancato l’obiettivo di essere outsider a livello nazionale ma centrato quello di indebolire ulteriormente il Congresso. Superata la soglia della maggioranza di 272 seggi per il suo partito, Narendra Modi ha ringraziato da Vadodara, nel Gujarat, Stato di cui è premier dal 2001, «il popolo della nazione per la vittoria» senza precedenti dato che «per la prima volta dall’indipendenza un partito che non sia il Congresso ha vinto con una maggioranza netta», ribadendo infine che «il governo appartiene al popolo e non a pochi leader». Già in mattinata, quando i conteggi ufficiali non avevano ancora concretizzato i termini della vittoria aveva comunque twittato: «Lo avevo detto, stanno per arrivare giorni belli in India ». Ancora prima dell’ufficializzazione del risultato, Rahul Gandhi, vicepresidente del Congresso e poi la madre Sonia, che del partito è presidente hanno invece ammesso le proprie responsabilità nella disfatta. Una sconfitta che potrebbe lasciare le minoranze in balia dell’estremismo induista e dei nazionalisti alle cui frange estremiste si devono campagne persecutorie come quelle contro i musulmani in Gujarat nel 2002 e i cristiani in Orissa nel 2008. In un commento a caldo all’agenzia
Fides, monsignor Albert D’Souza, arcivescovo di Agra e segretario Generale della Conferenza episcopale indiana, ha segnalato la soddisfazione per la nascita di «un governo forte, che potrà condurre l’India in una nuova fase di sviluppo economico e di progresso, osservando e garantendo i valori democratici e costituzionali ». Quanto alle prospettive monsignor Souza ha segnalato che «è vero che a volte piccoli gruppi di fanatici possono darci preoccupazione, ma la Chiesa continuerà nella sua missione». Attese anche le reazioni dal’estero, dopo che per anni le diplomazie hanno emarginato il Bharatiya Janata Party e i suoi leader per le posizioni estremiste e anche a causa di atteggiamento persecutorio verso le minoranze. Tra i primi a congratularsi con Modi sono stati il premier britannico James Cameron e il suo ministro degli Esteri William Hague. Oggi il premier uscente Manmohan Singh ha presentato le sue dimissioni al presidente, aprendo la strada al successore che mercoledì giurerà come capo del governo.