La grande macchina elettorale indiana sta per arrivare al traguardo dopo un mese di campagna tesa e convulsa come può essere solo in un Paese di queste dimensioni, diviso amministrativamente in 35 Stati e Territori e frazionato in una miriade di etnie, fedi, interessi non sempre in armonia come Costituzione e tradizione vorrebbero. Su tutto però, e mai come in queste elezioni, domina il futuro stesso della democrazia indiana, che pare smarrirsi tra particolarismi, interesse, corruzione; di un Paese-continente, che sembra avere ormai dimenticato i suoi ideali di sviluppo condiviso, nonviolenza e convivenza. «Le elezioni sono come il giorno del giudizio per i partiti politici, perché li costringe a porsi davanti agli elettori e a rendere conto della loro opera e dei loro misfatti. Ancora una volta dopo cinque anni hanno dovuto cercare di attrarre un elettorato di caste e fedi diverse e ricomporre i loro interessi in conflitto nel contesto della complessa realtà indiana». Come sottolinea Asghar Ali Engineer, intellettuale musulmano progressista, mai come in occasione delle elezioni che inizieranno domani l’India ricompatta le sue divisioni per accentuare il ruolo della politica. Polarizzato per anni tra uno schieramento laicista guidato dal Partito del Congresso nazionale indiano (Congresso, in breve), oggi sotto la presidenza di Sonia Gandhi, dopo avere rappresentato per decenni l’eredità della dinastia Gandhi-Nehru, e tra una compagine nazionalista fautrice degli aspetti più discriminatori e xenofobi dell’induismo – ma anche di un aspetto assistenziale marcato utile a recuperare nel seno dell’induismo i “transfughi” cristiani, buddhisti, musulmani – con al centro il Bharatiya Janata Party (Partito del popolo indiano), oggi l’elettorato indiano ha livello centrale una nuova proposta da valutare. Nell’incontro di presentazione ufficiale della Terza Forza, lo scorso 12 marzo nello Stato meridionale del Karnataka, il suo ideatore Dewe Gowda, esponente di peso del primo governo a guida non Congresso del Paese nel 1988, ha indicato l’iniziativa come «occasione storica per unire tutti i partiti democratici, laicisti e della sinistra nel Paese». A capo si è posta, con il peso della sua singolare esperienza, della sua popolarità e dei 120 milioni di elettori dell’Uttar Pradesh di cui è primo ministro, la “regina degli intoccabili”, Naina Kumari Mayawati. Il suo è stato un aut-auto: o capolista nella carica di premier, oppure la sostanziale rinuncia al voto dei fuoricasta e di buona parte degli emarginati dell’India. Finora, il Congresso al centro dell’Alleanza progressista unita (218 seggi nella Camera uscente, di cui 145 del partito della Gandhi) al governo centrale in alleanza strategica con il Fronte delle sinistre (59 seggi) cui si contrappongono il Bjp e i suoi alleati nell’Alleanza democratica nazionale (181 seggi, di cui, 138 al Bjp), hanno cercato, con ovvie difficoltà, di mediare tra le loro origini e una realtà in evoluzione. Quest’ultimo, in particolare, ha dovuto imparare a proprie spese che una proposta efficace non può essere basata esclusivamente sul nazionalismo a sfondo religioso, rigettato dai possibili alleati. Mai come in questo voto, il Bjp sembra puntare la propria proposta sui temi dello sviluppo e dell’economia, ed è aperto il suo tentativo di raccogliere voti musulmani e cristiani, puntando, più che sul cavallo di battaglia della “induità”, ovvero dell’identità indù imposta su tutti, sull’“indianità”, ovvero sull’orgoglio nazionale. Per tutti, i giochi maggiori, tuttavia, si faranno dopo le elezioni, facendo emergere accordi sottobanco o nuove inattese alleanze, anche questo una costante della politica indiana. L’esperienza di governo oggi è più una maledizione che un’opportunità della politica, dove sempre più sono gli outsider a godere di prospettive e favori dell’elettorato in grado di gestire in proprio il voto e non di cederlo per poche rupie al migliore offerente. Le ambizioni del Paese, come pure i suoi primi inciampi sulla strada di un benessere e di una ricchezza che sembravano a portata di mano, contribuiscono a dare oggi una diversa unitarietà di intenti e uno slancio che per molti anni era venuto a mancare. C’è tuttavia, nell’insieme, una grande disillusione: l’India oggi sembra essere un Paese non più in grado di sognare, di esprimere insieme una sola identità e universalità di proposte. La sua anima gandhiana va disperdendosi come il destino della sua dinastia di riferimento, quella Gandhi-Nehru. Oggi i rampolli sono su fronti contrapposti. Il figlio di Sonia, Rahul, punta sul tradizionale feudo di famiglia, la circoscrizione elettorale di Amethi nell’Uttar Pradesh per rinverdire le sorti politiche del Congresso e della famiglia; il cugino Varun, figlio di Maneka Gandhi, come Sonia nuora di Indira, è fiore all’occhiello del Bjp a Pilibhit, nello stesso Stato. Sempre che inquirenti ed elettori gli diano la possibilità di rifarsi dal suo primo scivolone in carriera: dure accuse contro i musulmani indiani durante un comizio che ne hanno messo a rischio carriera e fedina penale. Pochi scrupoli e molti colpi bassi. Anche questa è campagna elettorale, come – altro colpo all’eredità gandhiana – la violenza. Ormai una costante della vita in diversi Stati dell’India, ha avuto un catalizzatore nella prospettiva delle elezioni. Episodi come l’assalto di un centinaio di ribelli maoisti a una miniera di bauxite dell’Orissa che lunedì scorso ha lasciato 10 poliziotti e 4 guerriglieri uccisi, come pure il proclama dell’Hezbul Mujahedeen che ha minacciato di dare il via libera a 400 terroristi del Lashkar-e-Taiba infiltratisi dal Pakistan con l’obiettivo di colpire i seggi elettorali acquistano un’immensa visibilità in queste ore di attesa, preoccupazione e per molti, ancora, di speranza dell’India verso il voto.