lunedì 30 settembre 2024
In un solo mese in Amazzonia è andata in fumo una superficie pari a quella della Sicilia. Aria irrespirabile in Brasile: ad agosto nello Stato di San Paolo migliaia di crisi respiratorie
Un devastante incendio nella foresta amazzonica alle porte di Manaus in Brasile

Un devastante incendio nella foresta amazzonica alle porte di Manaus in Brasile - Ansa

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L’America Latina è in fiamme. Dopo la tregua della settimana scorsa, grazie alle piogge che in alcune aree del Brasile mancavano da 160 giorni, su quasi tutto il Continente non accenna a fermarsi l’emergenza incendi: dall’inizio dell’anno sono in tutto 350 mila focolai, il record di sempre. Come dimostrano le immagini dal satellite una densa coltre di fumo si è ormai sparsa su più Paesi, dalla Colombia all’Uruguay, e da lì non si smuove da un paio di settimane, rendendo l’aria irrespirabile soprattutto nei grandi centri urbani del Brasile: lì si possono persino vedere mascherine all’aperto come nelle prime settimane del Covid e l’umidità è scesa al 15%, arrivando ad essere inferiore a quella del deserto del Sahara, dove invece negli ultimi tempi sono curiosamente aumentate le precipitazioni.

A San Paolo, una delle aree metropolitane più colpite e con i suoi 20 milioni di abitanti la più popolata dell’America Latina, la concentrazione di Pm 2,5, cioè di polveri sottilissime, ha raggiunto quest’anno il record di sempre. Per alcuni giorni, la capitale paulista è risultata essere la città con la qualità dell’aria peggiore al mondo, secondo l’agenzia svizzera IQ Air: nel mese di agosto in tutto lo Stato di San Paolo ci sono stati oltre 1.500 casi di sindrome respiratoria acuta grave, con 76 morti. All’Amazzonia, il polmone del pianeta o, per meglio dire, il più grande “catturatore” di CO2 della Terra, sta andando ancora peggio: intrappolate nel cuore della foresta, alcune località hanno di recente registrato una concentrazione di Pm 2,5 di oltre 300 microgrammi per metro cubo, mentre l’Organizzazione mondiale della Sanità considera accettabile per l’organismo umano una soglia di 12 microgrammi.

Nel solo mese di agosto, in Amazzonia è andata in fumo una superficie pari a quella della Sicilia, mentre in tutto il Brasile, considerando altri biomi come il Pantanal e il Cerrado (la savana con la maggiore biodiversità del mondo con le sue oltre 6 mila specie di alberi e 800 specie di uccelli), dall’inizio dell’anno è stata bruciata un’area estesa quanto la Bulgaria. «Insieme alla flora e alla fauna, il fuoco mette a rischio la sopravvivenza dei popoli della foresta», hanno tuonato la Rete ecclesiale Panamazzonica e la Conferenza ecclesiale dell’Amazzonia, le voci della Chiesa nella regione. Dal 1985 ad oggi, cioè meno di 40 anni, secondo la Ong MapBiomas l’Amazzonia ha perso il 12,5% della sua vegetazione, vale a dire una superficie di oltre 1.100.000 chilometri quadrati, pari al territorio della Colombia. Di questo passo, la più grande foresta pluviale del pianeta potrebbe semplicemente scomparire: secondo la rivista Nature il punto di non ritorno è il 2050, data entro la quale fino al 47% dell’Amazzonia potrebbe subire “danni irreversibili”.

Le conseguenze già sono evidenti: mai come in queste settimane si sono registrati casi di animali selvatici messi in salvo dalle fiamme e il Rio Madeira, il principale affluente del Rio delle Amazzoni, è ormai ridotto ad una distesa di sabbia, con il livello dell’acqua a 20 centimetri, il minimo di sempre. La siccità ha portato anche un caldo anomalo da inizio anno sull’intero continente, con temperature in alcuni casi fino a 7 gradi sopra la media e previsioni che salvo un piccolo miglioramento in questi giorni parlano di clima torrido e secco fino a novembre, nelle aree più a rischio. Ma le ondate di caldo non colpiscono tutti allo stesso modo. Un dato infatti ci dimostra che la crisi, oltre che ambientale e sanitaria, è anche sociale: in base allo studio dell’università McKenzie le temperature rilevate in superficie nella città di San Paolo variano, e di molto, a seconda della zona.

Nella favela di Paraisopolis, ad esempio, nei giorni di picco di afa si sono registrati 9 gradi in più che nel quartiere borghese di Morumbi, distante appena 2 chilometri, a causa dell’assenza di alberi e della maggiore densità abitativa. Senza contare che la siccità incide sulla produzione di energia idroelettrica (che in Brasile rappresenta il 60% del totale) e dunque sulle bollette della luce, al punto che il governo del presidente Lula sta valutando di reintrodurre l’ora legale, abolita da Jair Bolsonaro, per sfruttare almeno il fotovoltaico. In Sudamerica la catastrofe climatica è più di una ipotesi concreta: è già in corso.
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