Ormai è tutto pronto, nella località turistica egiziana di Sharm el-Sheikh, per l’apertura domani della Cop27 - Reuters
«Phase out» contro «phase down». La battaglia finale di Glasgow si era trasformata nello scontro semantico tra Grandi sul carbone. Da una parte, Usa e Europa, inquinatori storici, favorevoli all’eliminazione (phase out) del combustibile altamente inquinante. Dall’altra, India e Cina, nuovi ricchi e nuovi produttori di emissioni, sostenitori della sua riduzione (phase down). Dopo ventisette ore di discussioni infuocate, l’avevano spuntata questi ultimi. Almeno, la Cop26 aveva potuto concludersi con un’intesa – seppur annacquata – per mantenere la temperatura globale sotto la soglia critica di 1,5 gradi alla fine del secolo rispetto all’era pre-industriale. Erano, però, rimaste sullo sfondo altre questioni cruciali.
Ovvero le richieste dei Paesi poveri di aiuti consistenti per adattarsi al riscaldamento in atto e, soprattutto, per riparare i danni da questo provocati. Pur avendo contribuito poco a causarle, sono questi a subire gli effetti più devastanti, oltretutto senza risorse per difendersi. Le catastrofi ambientali divorano il 10 per cento del tasso del crescita annuale delle nazioni africane. Le recenti alluvioni sono costate al Pakistan 40 miliardi idi dollari e tre punti di incremento del Pil per il prossimo anno.
Da qui l’importanza per Asia, Africa, America Latina e Isole del Pacifico del nodo “loss and damage”, come si dice in gergo tecnico, ancor più del capitolo “sull’adattamento”. Il nuovo vertice Onu sul clima (Cop27), che da domani riunirà i rappresentanti di 196 Paesi più l’Unione Europea a Sharm el-Sheikh, in Egitto, dovrà provare a scioglierlo. Come, non si sa.
A Glasgow, i Grandi avevano faticato a contenere il malcontento del Sud del pianeta, il cosiddetto “Gruppo dei 77” che, in realtà, comprende 134 Stati, guidati da Islamabad. Per salvare l’accordo, avevano preso tempo, annunciando fondi per l’assistenza tecnica e promettendo di aprire una discussione sull’incandescente dossier. Ora, alla “Cop africana”, come è stata definita, il tempo è giunto. Lo ha sottolineato il segretario generale Onu, Antonio Gutérres: «Non c’è modo di evitare una catastrofe se il mondo sviluppato e quello in via di sviluppo non sono in grado di siglare un patto storico.
Altrimenti saremo condannati». Gli ha fatto eco il rappresentante speciale della presidenza della Cop27, Wael Aboulmadg: «Tutti devono lasciare l’approccio conflittuale che ha frenato il processo troppo a lungo». Non è, però, facile, come dimostrano gli ultimi trent’anni di negoziazioni climatiche. La creazione di un fondo ad hoc per le compensazioni ai Paesi poveri spaventa quelli ricchi che temono si tratti di un precedente per l’attribuzione di responsabilità legali. Anche sull’adattamento il Nord del mondo è cauto. Già nel 2009, era stata promessa l’erogazione di 100 miliardi di dollari l’anno alle nazioni più vulnerabili a partire dal 2020, per investimenti finalizzati a ridurre le emissioni – la cosidetta “mitigazione” – e adeguarsi al cambio del clima. Una somma ingente in termini assoluti. In realtà, rappresenta un quarto del valore dei sussidi a gas, petrolio e altri combustibili fossili. Finora, però, i 100 miliardi – confermati l’anno scorso – sono rimasti sulla carta. Sharm dovrà avviare il dibattito su come trovarli, che si concluderà nel 2026.
Al contempo, ne verrà modificata la distribuzione. Attualmente, la gran parte dei fondi è destinata alla riduzione delle emissioni, tema caro ai Grandi. Dal 2025, dovrà essere raddoppiata la quota per l’adattamento, tasto dolente su cui batte il Sud del mondo. Passare dall’inchiostro alla realtà, però, è complicato. Nell’ultimo anno, lo scenario internazionale è mutato, in peggio. All’impatto di due anni di pandemia, si somma la guerra. La fame di energia rischia di relegare sullo sfondo lo stop ai combustibili fossili. Solo 24 Paesi – su oltre 190 – hanno aumentato gli obiettivi di taglio alle emissioni, secondo quanto deciso a Glasgow. Altri, come Ue e Usa, hanno detto che lo faranno presto. La Cina, principale produttore di CO2, si è limitata al silenzio.