Uno dei trentatré della miniera di San Josè, in Cile, ha avuto una figlia. L’hanno chiamata Esperanza, come il villaggio di tende dove i parenti dei minatori si sono attendati: a aspettare ciò che per molti giorni è sembrato impossibile - fino a quando attaccato a una sonda non è riemerso quel biglietto: siamo vivi, stiamo bene. L’hanno chiamata Esperanza, come l’accampamento spuntato dal nulla in una terra di pietre e sassi, dove pure madri e fratelli sperano, “contro ogni speranza”. E il nome di quella bambina, e del villaggio, dove si attende il ritorno di uomini sepolti settecento metri sottoterra – mentre poderose "talpe" trivellano il suolo in un fragore infernale – fa pensare. Viene in mente Charles Peguy: «La speranza, dice Dio, mi stupisce», scrive il poeta; attribuendo a Dio stesso uno stupore, una meraviglia per quei suoi poveri figli che comunque, in ogni circostanza, quando è appena è possibile e perfino quando è impossibile, sperano. La bambina cilena, di cui il giovane padre, Ariel Ticona, ha visto il volto solo in un video inviato sottoterra, è un altro capitolo della infinita storia della speranza degli uomini - che forse commuove anche Dio. Perché è arduo sperare quando hai settecento metri di terra instabile sopra la testa, quando te ne stai schiacciato in pochi metri quadri con altri trenta, pieni di incubi e paura, quando – nel silenzio mortale del sottosuolo – l’unica eco è quella di trivelle mostruose, 30 tonnellate di acciaio scagliate a martellare la roccia. E poi magari, a un tratto – come è accaduto giorni fa – i motori improvvisamente tacciono, sconfitta la loro forza imponente: uno strato più duro ha infranto perfino il più temprato acciaio. E allora, quando i motori si sono spenti, cosa avranno pensato gli uomini là sotto? C’è, attorno a questi “ultimi” spediti negli abissi per un pezzo di pane, tuttavia ora un movimento singolare e straordinario. Tutte le forze di un Paese, e non solo, spiegate; e una grande attenzione, oltre che a inviare cibo, acqua, medicine, a alimentare, come qualcosa di altrettanto indispensabile, la speranza. Le corrispondenze da Copiapó dicono del fitto intrecciarsi di messaggi e foto, tra le famiglie e i minatori. Dicono anche che quei messaggi sono vagliati, perché non si può permettere che la sfiducia e la disperazione si allarghino nel rifugio. Medici e psicologi vegliano sull’insorgere di stati depressivi, quasi si trattasse di un mortifero virus. Perché sanno che, se sei sepolto sotto terra e ti attendono mesi di prigionia, di speranza hai bisogno più che del cibo. E dunque la ignara bambina venuta al mondo ieri, non poteva che chiamarsi Esperanza. Speranza che, dice ancora Peguy, «non è altro che quella promessa di gemma che si annuncia, all’inizio di aprile». Che sembra, al confronto delle foreste, una cosa da nulla: «Eppure è da lei che tutto viene (..) Senza quella gemma da nulla, tutte le foreste non sarebbero che legno morto». Anche nelle viscere della terra a Copiapó, cibo e acqua e medicine non basterebbero, se gli uomini non sperassero. Anche loro, senza quell’attesa, non sarebbero che legno morto. E noi, non che non siamo in fondo a una miniera crollata, ma pur sempre dentro a una vita apparentemente destinata a finire – così almeno molti ci assicurano – sotto a una lapide: noi, non abbiamo nulla da imparare da Esperanza Ticona Segovia e da suo padre Ariel, 29 anni, che da là sotto guarda sua figlia in video, e sorride? Chissà se ce la farà, chissà se davvero le mostruose talpe d’acciaio sapranno raggiungere lui e gli altri. Quel ragazzo non può esserne certo. Ma nella gioia per la figlia, spera di più. Grato, pure in quel terribile buio, di quella bambina, e di sua madre, e dei compagni che là sopra si affannano per salvarlo. Riconoscendo, come vedendo più di prima – pure in quel buio – ciò che noi, salvi nelle nostre case piene di sole, spesso non vediamo.