Era e sarebbe dovuto rimanere un evento locale, parte delle tante violenze che quotidianamente scuotono l’India, forse parte di una faida interna al movimento nazionalista oppure davvero un atto di 'liberazione' della guerriglia contraria all’oppressione socio-religiosa ed economica sui tribali e fuoricasta. Invece l’uccisione, la notte del 23 agosto dell’anno scorso in un villaggio dell’Orissa, di Laxmananda Saraswati, autoelettosi 'swami' (maestro di fede) divenne spunto per la caccia ai cristiani. Lo swami era infatti al centro di una connessione tra interessi politici, economici, personali sotto la copertura dell’hinduttva (induità), dell’estremismo religioso che cerca continuamente motivi per una vera e propria pulizia etnica col pretesto della fede. Inutile l’attribuzione data immediatamente ai guerriglieri naxaliti, maoisti, come poi avrebbero essi stessi confermato in più occasioni. Occorreva trovare un capro espiatorio e, se non direttamente colpevoli, i cristiani dovevano essere almeno mandanti dell’assassinio del 'sant’uomo' e di quattro personaggi a lui vicini. Così, nei giorni successivi, l’Orissa ha vissuto la peggiore persecuzione anticristiana della storia dell’India post-coloniale. L’intero distretto di Kandhamal, area a prevalenza tribale, venne attraversato da violenze senza precedenti: almeno 70 i morti, secondo le fonti ecclesiali, 4.500 abitazioni date alle fiamme, 50mila gli sfollati, quasi 20mila feriti. Intere famiglie bruciate vive, case e raccolti dati alle fiamme, stupri, torture, sparizioni. Che non hanno risparmiato uomini e donne di Chiesa: molti i sacerdoti e le suore aggrediti, nei villaggi o nell’assalto a 150 edifici religiosi andati distrutti; altri dispersi e mai più ritrovati. Sei i pastori protestanti uccisi. Come ricorda anche monsignor Raphael Cheenath, arcivescovo di Cuttack-Bhubaneshwar soto la cui giurisdizione si trova il Kandhamal: «I religiosi sono stati l’obiettivo principale dei fondamentalisti, che hanno scatenato la loro sadica brutalità su sacerdoti e suore, arrivando persino ad uccidere, come nel caso del nostro padre Bernard Digal, morto per le percosse subite». Tuttavia il contagio fondamentalista doveva estendersi nei mesi successivi anche ad altre aree fuori dall’Orissa, controllato con difficoltà dalle forze dell’ordine e dai governi locali, sovente restii ad applicare con decisione la legge per timore di dispiacere alle forze politiche che cavalcano da sempre il radicalismo religioso. Non a caso si doveva registrare una ripresa delle persecuzione durante la campagna elettorale per le elezioni locali e nazionali che, avviate in autunno e conclusesi a maggio di quest’anno, dovevano riportare al potere in diversi stati e rafforzarne la maggioranza a livello centrale il Partito del Congresso guidato da Sonia Gandhi. Ora l’Orissa è tornato a fronteggiare i problemi di sempre che sono soprattutto povertà, sottosviluppo, ma anche assedio di troppi interessi alle terre tribali e a chi, a partire dalla Chiesa locale, della difesa dei deboli ha fatto una risposta concreta alla chiamata evangelica. In un certo senso, la tragedia dell’Orissa, il martirio di tanti suoi figli, ha restituito visibilità alla discriminazione cui sono fatti oggetto i cristiani nell’immenso Paese asiatico e l’avvio di una riflessione sullo status delle sue minoranze religiose.Non tutto è risolto, oggi, in Orissa e nel Kandhmal. Resta tanta paura per i fatti del recente passato; restano l’incertezza del futuro e ancora troppi problemi aperti. «La situazione è ancora terribile – dice padre Manoj Nayak, sacerdote tribale –. Sappiamo che circa 20mila cristiani vivono come sfollati o mendicanti in varie città dell’Orissa e anche in Stati limitrofi, ma alcuni persino a Mumbai o a Delhi. Molti sono ancora in ghetti per cristiani creati dal governo preso alcuni centri abitati, non essendo in grado di proteggerli in un loro eventuale ritorno ai villaggi d’origine» Occorre tuttavia guardare oltre, perché la convivenza torni ad essere una realtà, ma su basi e con consistenza nuove. «Per il 23 agosto abbiamo indetto il ’Giorno della pace e dell’armonia’, perché fatti come l’uccisione dello Swami Laxmananda Saraswati e le violenze anti-cristiane non devono accadere mai più – ricorda ancora monsignor Cheenath –. Dobbiamo combattere le tendenze che generano tali crimini estremi. Dobbiamo lavorare per l’amore, che significa lavorare per la pace».