«Sono preoccupato. Non mi piace lavorare dove non ci si può sentire a proprio agio, specialmente in un posto mai visitato prima. Garissa l’ho scoperta alla televisione solo il giorno del massacro ». Il noto conduttore radiofonico keniano Paul Peter Njogu, in arte Kadez, ha il timore negli occhi mentre parla del suo prossimo lavoro. Come molti altri suoi colleghi di base nella capitale Nairobi, il giornalista è infatti arrivato alla Garissa university college (Guc), nel nord-est del Kenya, per la commemorazione prevista per oggi della strage di 148 civili, in gran parte studenti. È passato un anno da quando gli jihadisti hanno preso di mira la cittadina di Garissa, ma la tensione è ancora palpabile. «Voglio intervistare i giovani e passare la notte nei dormitori dove decine di persone sono state uccise – continua Kadez –. Dobbiamo capire come mai questa è stata da sempre una zona così emarginalita dalle autorità». Il livello di sicurezza è alle stelle. Decine di soldati pattugliano le strade, mentre diversi agenti di polizia gestiscono posti di blocco e controllano le entrate di vari edifici nella città. «Ormai però è troppo tardi », protestano in molti. Nei giorni prima dell’attacco, alcuni studenti avevano denunciato di aver visto «strani personaggi» nell’università che potevano sembrare «terroristi ». Le autorità non hanno però dato peso agli avvertimenti. Ed è così che i militanti islamici di al-Shabaab sono entrati nell’università di mattina presto, riuscendo a prendere in ostaggio centinaia studenti. Dopo aver diviso i musulmani dai cristiani, hanno iniziato a sparare contro questi ultimi facendo decine di vittime. «C’erano cinque uomini armati – aveva dichiarato Collins Wetangula, uno dei sopravvissuti –, ho visto molti cristiani uccisi con un colpo di pistola alla nuca». In seguito all’intervento dell’esercito, quattro militanti e alcuni soldati sono morti. Circa 15 ore di terrore che hanno cambiato per sempre la realtà della regione. «Con l’attentato si è verificato un attacco allo Stato», spiega da Garissa Tommy Simmons, fondatore di Amref-Italia, un’organizzazione che da oltre 50 anni lavora in Africa soprattutto nel campo della salute. «In questa zona il sistema scolastico era in crescita e quello sanitario si stava consolidando. Nell’ultimo anno, invece – continua Simmons –, c’è stato un forte crollo. È quindi necessario ricostruire il tessuto sociale di queste comunità molto povere». Le cerimonie per la commemorazione avranno luogo in diverse città universitarie del Kenya. L’università di Garissa ha riaperto a gennaio, ma la paura rimane. Dopo l’attacco ci sono stati infatti un morto e oltre 230 feriti provocati da alcuni incidenti in quattro scuole. A volte bastava un rumore sospetto o una sirena legata a un’esercitazione di sicurezza per causare il panico tra gli studenti. C’è chi è caduto mentre tentava di scappare dalle finestre, chi invece è rimasto calpestato da gruppi che correvano spaventati verso le uscite. «Non c’è più fiducia nelle autorità – commenta Abdullahi Boru, analista della sicurezza per Amnesty International –. In Kenya si respira una cultura dell’improvvisazione insieme all’assenza di un vero comando». Sono inoltre sempre di più i giovani che in mancanza di lavoro diventano facili prede del fondamentalismo islamico. Da quando l’esercito del Kenya è entrato in Somalia nel 2011, al-Shabaab ha giurato di continuare a provocare attentati. Sempre più keniani si chiedono infatti quando giungerà il momento di uscire dal conflitto somalo.