Arriva da Firenze la prova, se ce n’era bisogno, che nel Sinai è in atto un orrendo e florido mercato di esseri umani. Dalla Toscana arriva la testimonianza di un rifugiato eritreo, cui da tempo il nostro Paese ha concesso asilo politico, il quale ha dovuto riscattare tre mesi fa la vita di suo fratello. Un testimone che smentisce in pieno le dichiarazioni del governo egiziano, secondo il quale non v’è traccia dei 250 eritrei ostaggio dei banditi nel deserto al confine con Israele. E conferma invece l’esistenza e le spietate modalità di azione di un racket internazionale che, chiedendo 10 mila dollari per risparmiare un ostaggio, sta lucrando milioni di dollari sulla pelle di centinaia di disperati.Non possiamo divulgare i veri nomi dei protagonisti per non mettere in pericolo i loro famigliari in Eritrea. Le istituzioni che ci hanno messo in contatto con il testimone, che chiameremo Michele, sono la Caritas italiana e la Caritas della diocesi fiorentina. Ai primi di settembre l’operatrice della Caritas di Firenze Elsa Dini riceve un’inusuale richiesta d’aiuto da parte dei Comboniani. Michele, che la congregazione ha aiutato a inserirsi, deve pagare settemila dollari a una banda di predoni egiziani per liberare suo fratello prigioniero nel Sinai. «All’inizio - spiega Elsa Dini - Michele mi raccontò che suo fratello Adam, 22 anni, era fuggito dall’Eritrea attraverso il Sudan. Dall’Italia aveva pagato tremila dollari a un passatore eritreo perché lo portasse in Israele, ma una volta in Egitto il giovane era stato catturato. Se non venivano versati altri settemila dollari, sarebbe stato ucciso. Subito contattai la Caritas egiziana. La quale mi disse che avevano già affrontato casi simili e c’era speranza di farlo rilasciare solo se era nelle mani della polizia. Se invece l’avevano preso i predoni l’unica era pagare il riscatto».Lasciamo proseguire Michele.«Adam voleva fuggire dall’Eritrea e raggiungere l’Europa. Ma dopo l’estate non era più possibile arrivare in Libia e da lì attraversare il Mediterraneo verso l’Italia. Ora tutti dal Corno d’Africa puntano a raggiungere Israele passando dalla vecchia rotta del Sudan. Nello stato ebraico puoi ottenere un permesso come rifugiato e passare in Europa». Alla fine dello scorso agosto Michele contatta un eritreo che vive a Khartoum, la capitale sudanese. «Alcuni conoscenti mi diedero il cellulare di questo tale, Mshgna. Concludemmo un accordo: se versavo tremila dollari avrebbe raccolto mio fratello fuori dal confine tra Eritrea e Sudan e lo avrebbe condotto in un campo alle porte di Kassala. Da lì sarebbe partito su un camion con un altro gruppo di profughi e in una settimana avrebbe raggiunto Israele».Adam passa la frontiera il primo settembre e raggiunge il campo vicino alla città sudanese. Quindi varca il confine egiziano, dopo di che di si perdono le sue tracce. «Chiamavo Mshgna, gli chiedevo che fine aveva fatto mio fratello. Lui mi rispondeva di star tranquillo» Ma il 7 settembre Adam si fa vivo con una telefonata drammatica.«Mi disse con voce terrorizzata che era stato abbandonato nel Sinai nelle mani di un gruppo di arabi egiziani. Lo avevano rinchiuso con altre 90 persone in una casa. Li tenevano incatenati e li picchiavano. Gli avevano portato via tutto, avevano lasciato solo i cellulari per chiamare i parenti. E se non avessi pagato 7000 dollari minacciavano di tagliargli la testa e di espiantargli gli organi per venderli».In preda al panico Michele si rivolge ai Comboniani e alla Caritas. «Chiamai Mshgna e gli urlai che mi aveva ingannato. Mi disse che non c’entrava nulla, ma mi consigliava di pagare, se ci tenevo a mio fratello. Che intanto mi telefonava ogni giorno. Faceva uno squillo ed io dovevo richiamare. Si lamentava di venire torturato. Mi raccontò che vicino c’erano altre due costruzioni dove in tutto stavano almeno 250 prigionieri. Chi non poteva pagare veniva fatto sparire. C’erano anche donne, umiliate e violentate. Non so in quale località si trovasse, ma quando ho pagato il riscatto, ho capito che era abbastanza vicina al confine israeliano».Michele raccoglie soldi nella diaspora eritrea. Infine chiede alla famiglia in patria di vendere terreni e bestiame. «Quando ho raccolto settemila dollari, ho chiamato i rapitori. Per il pagamento abbiamo concordato di consegnare i soldi a un certo Daniel. Ho versato il danaro a un mio parente in Israele. Si è presentato lui il 28 settembre all’appuntamento alla frontiera con la somma. Allora Daniel ha telefonato per dare il via libera e, dopo poco tempo, è arrivato Adam, malconcio, ma vivo. È andato in ospedale e da lì in campo profughi».Ecco cosa accadeva a settembre nel Sinai, altro che montature mediatiche. Neppure due mesi dopo, don Mosè Zerai riceveva la prima telefonata dagli eritrei provenienti dalla Libia. Avevano versato duemila dollari per il viaggio verso Israele. Per liberarli, i trafficanti ne chiedevano altri ottomila Identica dunque la somma totale chiesta, diecimila dollari. E identiche le minacce, le violenze e le torture praticate, le modalità di detenzione e il numero di ostaggi, 250 circa. Davvero tante le coincidenze in questa storia. Resta da capire quanto è grande questo racket e chi lo copre. E dove siano finite le persone sequestrate a settembre, se tra gli ostaggi che in contatto con il sacerdote eritreo, che sono a Rafah prigionieri del predone Abu Khaled, o in altre mani. Oppure se è stata mantenuta la minaccia di ucciderli ed espiantare loro gli organi. Magari il governo del Cairo ora sarà in grado di ammettere l’evidenza e dare alla comunità internazionale e all’opinione pubblica qualche risposta.