La noia, forse è stata la vera protagonista del terzo e ultimo dibattito televisivo fra Donald Trump e Hillary Clinton. La noia e un dato inconfutabile: il magnate newyorkese non è in grado di sostenere un contraddittorio con un animale politico temprato da decenni di esperienza fra i banchi del Senato e dietro la scrivania della segreteria di Stato.
Con il suo completo pantalone bianco, Hillary ha incarnato l’autorità e l’autorevolezza della politica di fronte a un Trump, armato di cravatta rossa e di una spilletta con la bandiera a stelle e strisce che è parso eternamente subire l’iniziativa dell’avversaria. Risultato – sul piano dell’immagine televisiva – di un secco ko, il terzo consecutivo.
E questo può verosimilmente significare l’addio di Donald Trump ai suoi sogni di gloria. Staccato secondo i sondaggi di almeno 9 punti dall’avversaria, non ha fatto che ripetere un po’ stancamente il suo mantra sull’immigrazione («Abbiamo bisogno di confini sicuri, da lì passa la droga che avvelena la nostra gente: io voglio un muro, voglio un controllo, voglio togliere di mezzo le persone che non funzionano in questo Paese. Chi non funziona deve andarsene»), prontamente rintuzzato dalla Clinton («Di recente ho conosciuto una giovane che teme che i suoi genitori possano venire espulsi perché a differenza sua sono clandestini: in America abbiamo 11 milioni di immigrati irregolari che potrebbero essere soggetti alle espulsioni. Possiamo espellerle tutti? Io non voglio vedere materializzarsi una deportazione forzata come quella che vorrebbe Donald, separando i bambini dalle loro famiglie, perché non è in linea con i nostri valori»), ondivaga sul tema dell’aborto («È sempre la più difficile delle decisioni»), come su quello delle armi («Voglio regolamentare il possesso delle armi, non vietarlo. Ma troppe persone muoiono per l’uso di armi da fuoco. Trump, lo so, protegge e difende le leggi sulle armi...»), ma soprattutto efficacissima come provocatrice.
Una trappola nella quale Trump è banalmente caduto a proposito della supposta vicinanza con Putin («Sei un pupazzo nelle sue mani») e sulla politica in Medio Oriente («Mentre stavo lavorando al raid che ha portato alla cattura di Osama bin Laden, Trump era il presentatore di Celebrity Apprentice»), balbettando ovvietà che facevano segnare un vantaggio più che evidente per Hillary.
Anche sul tema delicatissimo delle 33mila mail cancellate la candidata democratica è riuscita a districarsi, se pure con qualche difficoltà, così come Trump è stato poco incisivo e inefficace sulla questione dei finanziamenti dell’Arabia Saudita e del Qatar sulla fondazione creata dal marito Bill. Parità invece sui tempi economici: («Il piano fiscale della Clinton è un disastro. Raddoppierà le tasse, anche se lo maschera con la promessa di università gratuite»; «Non alzerò le tasse a chi guadagna meno di 200 mila dollari, né aumenterò il debito di un solo centesimo. Con Obama l’America si è infatti incamminata sulla via diametralmente opposta: l’eliminazione del debito»).
Mancava il colpo del ko, e neppure il richiamo al sessismo di Trump («Quelle che mi accusano sono donne in cerca di un momento di celebrità») faceva uscire il dibattito dai binari di una sopportata correttezza. Fino al momento in cui il moderatore ha chiesto a Trump – che ha accusato la Clinton di essere sostenuta da quasi tutti i giornali perché le elezioni sono truccate – se accetterà l’esito del voto: «Lo deciderò al momento», ha risposto, offrendo a Hillary il destro per una sentenza che peserà nell’urna molto più delle scampagnate libertine del tycoon, molto di più dei suoi affondi sull’America messa in ginocchio da otto anni Barack Obama o dei richiami alla purezza dei bianchi e al pericolo dell’immigrazione clandestina: «Donald Trump è il candidato più pericoloso della nostra storia, un uomo che denigra la democrazia americana».
Quasi il finale di un film di Frank Capra o di Clint Eastwood, dove la rettitudine dei “buoni” spinge verso il baratro il re dei manigoldi. E con lui ogni velleità di recuperare il consenso perduto.