I tavoli sono di “fer forgé” (ferro battuto), il più tipico dei prodotti dell’artigianato haitiano, insieme ai coloratissimi quadri naif. Dieci punti scuri affogati nel mare crema e verde delle pareti. E nel giallo del pavimento, ricoperto di piastrelle vere. Un dettaglio non da poco: a Port-au-Prince solo i locali di Petionville – il quartiere dell’élite locale e degli stranieri – sono pavimentati. Nel resto della città anche una colata di cemento è un lusso. Eppure “Chez Billy” dista oltre un’ora di auto dalle luci di Petionville. Non è solo questione di chilometri: il ristorante si trova nel cuore di Cité Soleil, la più misera delle troppe baraccopoli che affollano l’America Latina. Fino a qualche mese fa, al posto dell’edificio che ospita “Chez Billy” c’era un palazzo fatiscente. I 3.500 sfollati del campo di Place Fierté lo usavano come immondezzaio. «Col permesso del Comune abbiamo bonificato l’area e restaurato la struttura», racconta Fiammetta Cappellini, responsabile di Avsi ad Haiti. Ora, nelle sue cinque grandi stanze ci sono altrettanti laboratori: sartoria, ricamo, produzione di mattoni, lavorazione del ferro e, appunto, “Chez Billy”.Già in funzione da settimane come punto di ristoro ma inaugurato ufficialmente il giorno di Ferragosto, il locale offre pasti con standard igienici garantiti. A prepararli sono sei cuoche haitiane che hanno frequentato il corso di cucina. «Il modello è lo stesso per tutti i laboratori. Abbiamo invitato alla formazione i capifamiglia della tendopoli di Place Fierté e alcuni giovani del quartiere con situazioni particolarmente difficili – spiega la Cappellini –. Abbiamo fornito loro un insegnante per ogni ambito e gli strumenti di lavoro, oltre all’uso dei locali e, in alcuni casi, delle commesse. Sono stati, così, avviati gli atelier di produzione: chi lavora riceve una percentuale sui guadagni». Anche chi ha delle commesse in proprio può usare laboratori e strumenti comuni per realizzarli. Decine e decine di famiglie della baraccopoli si sono trasformati in micro-imprenditori: non dipendono più dagli aiuti ma sono entrati nel circuito della produzione.“Chez Billy” è il fiore all’occhiello di quest’esperienza. Prima, i dipendenti delle Ong e i funzionari delle varie agenzie Onu – in tutto centinaia di persone che gravitano intorno al quartiere per ragioni di servizio – erano costretti a digiunare fino al pomeriggio quando, usciti da Cité Soleil, si riversavano in massa nel bar della Texaco, la versione haitiana dell’autogrill. Mangiare in uno dei piccoli “ristoranti” – una capanna con qualche sedia scassata in cui una signora riversa “riso e fagioli” in vaschette di plastica direttamente da una pignatta di rame – è rischioso per “l’intestino”. Specie ora, in tempi di colera. “Chez Billy” – con le pentole pulite, le posate, il personale coi guanti – è ormai il loro punto di ritrovo abituale. Tanto che le sei cuoche – che si alternano ai fornelli – hanno imparato a preparare anche qualche piatto “europeo”. «Italiano direi. Gli spaghetti al pomodoro, ad esempio – sorride Fiammetta –. Ci saranno anche nel menù di Ferragosto insieme alle “banane pese” (banane fritte)…».La data scelta per l’inaugurazione “formale” – il 15 agosto – è simbolica: l’Assunta è una celebrazione molto sentita ad Haiti. Vengono organizzate processioni, veglie di preghiera ma anche “feste popolari”. Per un giorno, gli haitiani si prendono una pausa dai drammi quotidiani, ben più antichi del sisma. «All’inaugurazione ci sarà anche Billy, un bimbo della Cité che conosciamo da tempo – aggiunge Fiammetta –. Era sempre per strada, la mamma non si occupava di lui. Poi, ci è venuto in mente di affidarle la gestione del punto di ristoro. Da allora è un’altra persona: lavora sodo e non trascura più il piccolo Billy…». A volte accade. Anche tra le macerie di Cité Soleil.
SI RIDUCONO I CASI DI COLERA A PORT-AU-PRINCEedric (il nome è di fantasia) zoppicava leggermente quando ha lasciato Choscal, il grande ospedale bianco e verde di Cité Soleil, di proprietà del governo ma gestito, dopo il sisma, da Medici senza Frontiere (Msf). «Sorrideva, finalmente», racconta Karina Delli Paoli, casertana di 38 anni, infermiera di Msf, appena rientrata in Italia dopo cinque mesi ad Haiti.Il 17enne era arrivato in clinica dieci giorni prima con l’intestino spappolato da una raffica di pallottole. Era finito per caso nel mezzo di un regolamento di conti fra bande, uno dei tanti che avvengono anche in pieno giorno nella baraccopoli. Ora che il colera ha rallentato il ritmo di contagio, sono di nuovo le armi da fuoco la prima causa di ricovero. «Cedric era in condizioni disperate ma, con una serie di operazioni, siamo riusciti a salvarlo. Ogni volta che accade è una festa… I casi come quello di Cedric ci danno la forza di andare avanti», aggiunge. Poi si ferma e ride: «E di non fermarci, nemmeno a Ferragosto». Per il personale di Choscal – un centinaio di persone tra stranieri e locali – sarà un lunedì frenetico come gli altri. Ogni giorno, in media, un centinaio di persone si ammassa nella tenda che funge da sala d’attesa. Lì un’infermiera “smista” i pazienti: i più gravi ricevono una tessera rossa e sono portati direttamente nell’adiacente sala delle urgenze. Gli altri – a cui viene dato un foglietto giallo o verde a seconda dei sintomi – aspettano il turno di visita.L’attesa può durare anche alcune ore, a seconda della folla. «Fino a poco più di un mese fa, avevamo in media 50 casi al giorno solo di colera, tanto che abbiamo dovuto riaprire il reparto apposito: tre tende isolate dal resto dell’ospedale – sottolinea Karina –. Ora sono 4 o 5 alla settimana». L’epidemia ha ucciso negli ultimi 10 mesi circa 5.500 persone e ne ha colpito oltre 300mila. Ora, la malattia – esplosa nel novembre scorso e prima sconosciuta nell’isola – è diventata endemica. Si è, dunque, “stabilizzata”.«Questo soprattutto grazie all’azione di sensibilizzazione verso gli abitanti. Il colera può essere evitato seguendo le basilari norme igieniche». Il pericolo, però, resta, soprattutto fuori dalla capitale. Nell’Artibonite e a Port-de-Paix c’è stato un lieve aumento di recente. Nell’Haiti rurale, senza medicine né ospedali, il colera continua a colpire. Nel silenzio.
FRA I TELI DI PLASTICA SPUNTA ANCHE UNA BIBLIOTECAAlexandre ha “incontrato” il suo primo libro a 14 anni, un mese fa. La sua famiglia era troppo povera per mandarla a scuola e, ad Haiti, non esiste l’istruzione gratuita se non nelle strutture dei missionari o delle Ong. Già prima del terremoto, le librerie erano inaccessibili per una popolazione che – per i tre quarti – sopravviveva con meno di due dollari al giorno. La “svolta” per Alexandre è avvenuta – paradossalmente – dopo il suo arrivo, sei mesi fa, nel campo per sfollati di Petionville. Dal giorno del sisma, il 12 gennaio scorso, ha vagabondato per varie tendopoli della capitale, fino ad arrivare in quella allestita nel campo sportivo di Petionville. Qui, nel mare di teli di plastica, ce n’è uno più grande degli altri: la “tenda-biblioteca”. Un progetto ideato dalla scrittrice haitiana Yanick Lahens e realizzato con l’aiuto della cooperazione francese e dell’associazione “Biblioteche senza frontiere”. In tutto, ora ce ne sono otto nei circa mille campi per sfollati di Port-au-Prince. Una percentuale minima, certo. «Ma è pur sempre un inizio», spiega la Lahens.Grazie alla tenda-biblioteca “Dadadou”, Alexandre ha scoperto i libri. E, come lei, altre decine e decine di adolescenti e bambini. Che, ogni giorno, fanno la fila per entrare nella struttura, osservare i volumi colorati negli scaffali, ascoltare gli animatori. «I ragazzi vengono divisi per gruppi, in base all’età e agli interessi. C’è un’équipe locale – precedentemente formata – che fa letture collettive di libri scelti insieme. Chi preferisce, invece, si apparta in un angolo e legge da solo ciò che preferisce», continua la Lahens. Data l’alta affluenza – una trentina di lettori al giorno – “Dadadou” resterà aperta anche il 15 agosto. E in molti si sono già “prenotati” per un Ferragosto tra i libri. L’obiettivo – spiega – è avvicinare i ragazzi alla lettura. «Perché? Perché leggere rende le persone migliori: attraverso i libri i ragazzi imparano a immaginare, a sognare, a sperare. E questo Paese ha assoluta necessità di sognatori. Più che dei soldi», conclude la scrittrice.