Soldati russi, rilasciati dagli ucraini dopo l'ultimo scambio di prigionieri, rientrano in patria. Sempre più giovani russi non vogliono essere arruolati per combattere in Ucraina - Ministero della Difesa russo
Nascondersi o scappare dal Paese: chi vuole evitare l’arruolamento, in Russia, non ha più altra scelta. Anche se Putin ha annunciato che la mobilitazione parziale può ritenersi conclusa con il richiamo alle armi dei 300mila riservisti da inviare in Ucraina, per decine di migliaia di obiettori di coscienza la situazione continua a essere estremamente critica, perché una nuova ondata di arruolamenti potrebbe scattare da un momento all’altro.
Il clima di estrema incertezza e il rischio di essere fagocitati all’improvviso dalla macchina bellica del Cremlino ha spinto molti di loro a far perdere le proprie tracce. C’è chi tiene il cellulare quasi sempre spento ed è stato costretto a licenziarsi (secondo la legge russa, i datori di lavoro sono infatti obbligati a consegnare i dipendenti richiamati). Chi ha lasciato le città per non incappare nei punti di distribuzione delle lettere di reclutamento ed è andato a rifugiarsi nelle dacie o nelle case di campagna messe a disposizione da parenti e amici.
E chi, invece, si è dato letteralmente alla macchia come Adam Kalinin, pseudonimo del tecnico informatico 38enne di Mosca che per scampare alla coscrizione vive accampato dalla fine di settembre in un bosco della Russia meridionale. Ha allestito una tenda per dormire e un’altra, dotata di parabola satellitare con connessione Internet, per continuare a lavorare. La sua azienda l’ha licenziato ma gli consente di proseguire il lavoro da remoto, in veste ufficiosa. L’uomo cucina all’aperto, raccoglie l’acqua piovana nei secchi di plastica e ha sistemato un container con le provviste a un’ora di distanza dal suo accampamento. Sul suo canale Telegram spiega che gli mancano molto le docce calde ma le sue condizioni di vita sono di gran lunga migliori di quelle degli uomini inviati in Ucraina. Ma non potrà restare lì tutto l’inverno.
Di fatto, in Russia, l’obiezione di coscienza all’obbligo militare non è un reato. Attualmente sono in corso i procedimenti penali contro 230 obiettori russi non perché si sono rifiutati di andare a combattere ma perché hanno esplicitato il loro dissenso sui social network, hanno protestato pacificamente nei luoghi pubblici, hanno distribuito stampa clandestina e affisso adesivi contro la guerra. L’articolo 59 della Costituzione russa garantirebbe il diritto a svolgere un servizio civile alternativo ma la legge non viene rispettata e ormai gli abusi non si contano più.
«Esistono campi di detenzione specifici in cui vengono imprigionati illegalmente sia i coscritti che i soldati a contratto che si rifiutano di combattere in Ucraina» denuncia Alexandr Belik, coordinatore del Movimento degli obiettori di coscienza russi.
Numerose denunce e video fatti circolare clandestinamente sul Web hanno confermato l’esistenza di veri e propri centri di rieducazione per «refusenik», in cui centinaia di uomini considerati traditori della patria sono tenuti in custodia nei territori occupati di Donetsk e Luhansk. Per costringerli ad andare in prima linea li fanno dormire sul pavimento, li privano del cibo e della possibilità di lavarsi e li sottopongono a continue intimidazioni, minacce e violenze fisiche.
«La situazione è gravissima e sempre più persone si rivolgono al nostro movimento per chiedere aiuto. Basti pensare che il nostro canale Telegram conta adesso 55mila iscritti mentre prima della mobilitazione erano appena duemila», prosegue Belik, che da alcuni mesi si è rifugiato in Estonia. Tra le pochissime voci che si sono levate a difesa degli obiettori c’è quella della Conferenza episcopale russa, che alcune settimane fa, con una nota a firma dell’arcivescovo di Mosca, monsignor Paolo Pezzi, ha chiesto direttamente a Putin di far valere il diritto dell’obiezione di coscienza.