Si celebra oggi in tutto il mondo, su iniziativa dell’Unesco, la Giornata mondiale degli insegnanti: un appuntamento annuale da quando nel 1994 la «Raccomandazione sullo Status degli Insegnanti» è stata adottata da una speciale Conferenza intergovernativa convocata dall’Unesco e dall’ILO il 5 ottobre 1966. La Raccomandazione rappresentò il punto di approdo di una lunga serie di incontri che seguirono alla richiesta avanzata dalla delegazione cinese nella prima sessione della Conferenza Generale dell’Unesco del 1946 di promulgare una Carta degli insegnanti di tutto il mondo per a salvaguardare le condizioni materiali e morali dei docenti e a proteggere la libertà di insegnamento. Un documento, che pur vecchio di 40 anni, conserva intatto il suo valore politico. Un richiamo al valore etico dell’insegnamento e al dovere di ogni società di provvedere alla formazione di una classe di docenti adeguata alle esigenze delle società in cui operano. Raccomandazioni che riguardano lo status dei docenti, dalla formazione, alle condizioni di lavoro, lo sviluppo di carriera e le retribuzioni. Ma soprattutto, come ribadito anche nei messaggi annuali per la giornata, gli insegnanti e l’educazione sono un elemento cruciale per il progresso delle nazioni. Le moderne economie basano la loro crescita sull’innovazione tecnologica, lo sviluppo umano si basa sulla conoscenza delle propria storia. ma soprattutto è l’avventura della scuola: il viaggio della conoscenza, la sfida dell’educazione pere fare di semplici ragazzi gli uomini del futuro.
THAILANDIAInsegno da molti anni nella scuola cattolica adiacente alla chiesa di San Giuseppe a Phrae, cittadina nel Nord della Thailandia. Anche noi festeggiamo la Giornata dell’insegnante, ma lo facciamo secondo le nostre consuetudini. Normalmente di giovedì, giornata propizia. Molte scuole, poi, la celebrano in date anche distanti da quella internazionale, secondo un proprio calendario.Comunque sia, per la nostra scuola, come in tutto il Paese, si tratta di un evento importante. Certamente di una giornata che rafforza il rapporto tra educatori e studenti. Il nostro Paese ha anche problemi e indubbiamente la scuola in parte li riconosce, in parte cerca di affrontarli, ma il nostro sistema educativo tende soprattutto a indirizzare verso una crescita armoniosa con al centro un atteggiamento non conflittuale verso la vita. Un’educazione, quella che promuoviamo, che riconosce adeguatamente l’identità nazionale e indirizza i giovani al rispetto delle nostre istituzioni, tra cui primeggia la monarchia. Il buddhismo ha anche un suo ruolo, religioso e sociale, che la scuola recupera come parte integrante dell’identità nazionale e questo vale anche per la nostra scuola cattolica. Credo che la vita nel nostro istituto, dove abbiamo centinaia di bambini tra elementari e medie, sia in fondo simile a quella di tutte le scuole del mondo, ma ovviamente la nostra cultura la rende in parte diversa. Lo si può vedere anche nelle piccole cose, come il fatto di togliersi le scarpe all’ingresso, oppure nel saluto tradizionale (wai, con le mani giunte davanti al capo chino), con cui gli studenti ci salutano. E poi abbiamo l’alzabandiera e il canto dell’inno nazionale al mattino. Tuttavia, credo che sia proprio nella Giornata del rispetto per l’insegnante (Wai Kru Day) che noi docenti sentiamo di avere un ruolo sociale oltre che educativo. Il fatto che gli studenti si inchinino davanti a noi o ci offrano corone di fiori ci rende orgogliosi ma soprattutto ci fa sentire parte integrante della società che anche qui come altrove tende ad evolvere e spesso a non valutare più come un tempo le proprie tradizioni o convenzioni. Sappiamo che il nostro ruolo è a volte messo in discussione e sovente dall’esterno siamo criticati per essere in qualche modo artefici di una società che tende a non valorizzare l’individualità, ma a favorire piuttosto la stabilità. Non sempre possiamo disporre degli strumenti più aggiornati per accompagnare il cammino dei nostri giovani in una realtà in evoluzione, tuttavia sono convinta che il nostro ruolo resti centrale e, comunque, in sintonia con le tradizioni e aspirazioni della Thailandia. Questo ci ripaga dell’impegno per 180-200 giorni all’anno e, a volte, di qualche inevitabile amarezza.
BussapaKENYALa scelta di diventare insegnante risale alla mia esperienza di vita: sono stato un bambino di strada e so cosa significa crescere senza delle prospettive solide. Lo slum di Kibera, qui a Nairobi, è popolato da oltre un milione di persone, che vivono in condizioni di estremo disagio e povertà. Anni fa sono entrato in contatto con Amani, l’onlus nata nel 1995 per sostenere gli interventi avviati in Africa da Koinonia, la comunità del padre comboniano Renato Kizito Sesana. Grazie al loro aiuto ho studiato Scienze dell’educazione all’Università di Nairobi e ho lavorato come operatore di strada, individuando giovani disagiati e portandoli in un centro di prima accoglienza. Nel 2008 ho frequentato un master all’Università Cattolica di Milano in Psicologia della mediazione familiare e comunitaria.Successivamente sono tornato in Kenya per aiutare altri bambini di strada. C’era, però, un grosso problema: sono troppo poche, da noi, le persone con una preparazione accademica utile a rispondere a una sfide sociale tanto complessa. Così quest’anno, grazie ad Amani, è stato fondato a Nairobi l’Istituto di Studi sociali Shalom, nel quale insegno: l’obiettivo è proprio quello di formare risorse umane in grado poi di operare sulla strada. I corsi sono iniziati ad agosto con la partecipazione di 11 studenti tra i 20 e i 23 anni. Alcuni sono ex bambini di strada, che usufruiscono di borse di studio. Sono sicuro che, una volta terminati i corsi, diventeranno buoni ambasciatori nelle situazioni di disagio. La durata degli studi può essere di un anno (alla fine del quale si ottiene un certificato), di due (per il diploma) o di tre (per la laurea). Gli studenti imparano nozioni di sociologia giovanile, sviluppo della comunità, leadership, effetti dell’abuso di droga, psicologia, ma anche di informatica, oltre a effettuare ricerche sul campo. Insomma, le materie scelte nascono da quelli che sono in un certo senso i disagi e i bisogni della comunità locale. Attualmente la nostra sfida principale è di far conoscere di più il nostro istituto, che rappresenta una risorsa importante.Il vero sviluppo, per me, si basa sull’educazione. La professione di insegnante in Africa non è molto ambita, anche perché gli stipendi sono bassi. Bisogna capire, però, che sono proprio gli insegnanti ad avere la chiave per cambiare le cose. Se avremo bravi insegnanti, dalle scuole usciranno persone preparate e in grado di migliorare la società in cui vivono. Altrettanto importante sarebbe non basare i nostri contenuti educativi solo su modelli stranieri ma soprattutto sulla realtà africana: per far questo, però, occorrono maggiori ricerche sul campo e continui scambi di idee.
Boniface OkadaHAITIInsegnare è stata da sempre la mia vocazione. Per dieci anni ho lavorato come docente di francese nella scuola nazionale di Cité Soleil. Ora questa è un cumulo di macerie: il terremoto del 12 gennaio 2010 l’ha devastata. Al posto del vecchio edificio – una struttura di tre piani che ospitava oltre mille alunni – ci sono solo 6 aule, per 200 alunni in totale. Non sono tra gli insegnanti che sono stati richiamati, per cui sono in “attesa di collocazione”. Ma le necessità educative sono talmente grandi che per un insegnante è impossibile restare inerte. Da gennaio a luglio, io e la mia famiglia abbiamo vissuto in un campo terremotati di Cité Soleil: la nostra casa ha subito danni gravissimi. Nella tendopoli ho incontrato gli operatori di Avsi, che hanno preso in carico il campo. Mi hanno proposto di ricominciare da subito ad insegnare ai bambini del campo. Ero perplesso, non mi sentivo pronto... Poi, ho visto i miei stessi bambini passare giornate inconcludenti in mezzo alla polvere e all’immondizia ed ho capito che la scuola doveva ricominciare. Abbiamo montato una grande tenda dell’Unicef, messo un telone di plastica per terra. Una tavola di compensato dipinta di nero faceva da lavagna. Il 1 febbraio abbiamo cominciato con i primi 50 bambini. Sono stati mesi duri, mancava tutto, c’era disordine... Ci sembrava che non servisse a nulla, ma siamo andati avanti, e in qualche modo siamo arrivati alla fine dell’anno scolastico. Ieri, è stato il primo giorno del nuovo anno scolastico. Avevamo grandi speranze.La situazione invece è ancora difficilissima. Io ho ripreso il mio posto nella scuola “provvisoria” di Avsi. Ora abbiamo una struttura con pavimento in cemento, pareti in compensato e tetto di tolla. Ci hanno detto che i banchi arriveranno presto, per ora i bambini si siedono per terra, sul solito telone di plastica. Abbiamo due casse di quaderni e un libro ogni tre bambini. Io seguo tre classi, la scuola ne ha sei, per un totale di 300 bambini circa 50 per classe. C’è poi un secondo turno nel pomeriggio, altri 300 bambini. È dura insegnare tutte queste ore, ma non me la sono sentita di dire di no. Non sappiamo se noi insegnanti saremo pagati. Certo non dal Ministero, che ha smesso di pagare a dicembre e non ha più ripreso. Però ci sembra importante continuare. Per i nostri bambini e per la nostra comunità. Credo nell’educazione, credo che le nuove generazioni siano il futuro di ogni civiltà. Per questo, sarò i nuovo in classe domani.
Louis Joseph RomualdPERU'Prima ora: inglese. Seconda: informatica. Dopo la ricreazione: matematica, spagnolo, musica, danza. È l’orario normale di un giorno qualunque nella scuola numero 58 di “Fe y Alegria” (“Fede e Gioia”), di Lima. Ma in realtà l’Istituto de la Bienaventurada Virgen Maria – con 750 alunni, fra primaria e secondaria – non è una scuola qualunque, perché si trova a Jicamarca, uno dei “quartieri” (senza luce, né strade asfaltate, né servizi elementari) più marginali della periferia della capitale peruviana. «Il fatto che siano poveri non significa che non debbano ricevere un’educazione di grande qualità», spiega l’irlandese Patricia Mc Laughlin Traynor, dell’ordine delle suore di Loreto. «Questi bambini hanno gli stessi identici diritti di tutti gli altri bambini del mondo. E secondo me un’educazione senza le arti non è completa». L’istituto è una vera oasi in mezzo alla polvere di Jicamarca: un insediamento costruito – come tanti altri – fra le giganti dune di sabbia che circondano Lima. Vicino al grande cortile centrale, c’è anche un piccolo prato verde: una bella macchia colorata che spicca su tutto. «Una volta portai i bambini in gita – racconta suor Patricia – andammo a vedere un parco. Una piccolina toccò l’erba e mi chiese: ma questo cos’è? Capii che dovevamo seminare uno spazio per permettere ai bimbi di entrare in contatto con la natura». L’educazione è anche questo. La manutenzione del giardinetto costa un po’ – ammette la preside – soprattutto in un’area desertica come Lima, ma vale la pena. La scuola è tutto per questi ragazzini. È la possibilità reale di cambiare le cose. «Qui siamo assolutamente convinti che l’educazione sia la chiave che permetterà a questi ragazzini di andare avanti. Ma dobbiamo dare loro la migliore educazione possibile. Parlo di valori, di educazione dal punto di vista accademico, parlo di futuro professionale». Per fare tutto ciò servono insegnanti speciali. «Io cerco sempre professori con una vera vocazione. Maestri che vogliono realmente aiutare i bambini. Accade che spesso, da piccoli, abbiano vissuto la stessa situazione dei loro alunni».Nato nella seconda metà degli anni ’50 da un’idea del padre gesuita gesuita José Maria Vélaz, “Fe y Alegria” – che si autodefinisce un Movimento di educazione popolare integrale e promozione sociale – attualmente è presente in 17 Paesi latinoamericani, in Spagna e in Chad. In totale gestisce circa 2mila scuole e istituti di vario genere, con un milione e 200mila alunni.
Mi.Co.