sabato 6 gennaio 2024
Il conflitto è entrato in una nuova fase con la riduzione delle truppe nel nord dell'enclave. Ma le ostilità andranno avanti «molto tempo». L'analista Mendel: «Non siamo più sicuri»
Soldati israeliani nella Striscia

Soldati israeliani nella Striscia - Ansa

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Tre mesi e altrettante fasi. Giunta alla dodicesima settimana, la “guerra lunga” tra Israele e Hamas ha mutato di nuovo direzione. Dopo quello dei bombardamenti a tappeto cominciati subito dopo il massacro perpetrato dal gruppo islamista nei kibbutz del sud dello Stato ebraico e dell’incursione di terra avviata il 28 ottobre, è arrivato lo stadio dei raid mirati – dentro e soprattutto fuori dalla Striscia – con annessa riduzione e riorganizzazione delle truppe sul terreno. Il ritiro di cinque brigate dal nord dell’enclave è quasi completato mentre i riservisti torneranno a casa secondo un calendario di turnazione. Contrariamente a quanto potrebbe apparire, però, l’aggiornamento in corso sembra confermare l’inquietante previsione fatta dal premier Benjamin Netanyahu la settimana scorsa: «Il conflitto andrà avanti per molti mesi». E il teatro potrebbe spostarsi a nord, ovvero lungo il confine con il Libano dove, non a caso, stanno venendo ricollocate le truppe in uscita da Gaza. Dal 7 ottobre, la tensione tra le forze armate israeliane – Tsahal, dall’acronimo – e la milizia filo-iraniana Hezbollah è stata costante per quanto contenuta. L’omicidio a Beirut del numero 2 di Hamas, Saleh al-Arouri, martedì, rischia di far saltare il fragile equilibrio. Da giorni il capo di Hezbollah, Hasan Nasrallah, minaccia «conseguenze». E, ieri,la milizia ha lanciato quaranta razzi verso la regione di Meron. Mentre, nelle ore precedenti, l’esercito di Gerusalemme aveva attaccato un centro di comando della formazione nel villaggio di Blida. Il pericolo è concreto. Da qui gli appelli dell’alto rappresentante, Josep Borrell, in viaggio in Libano, a «evitare l’escalation». Per ora, però, il copione sembra limitarsi ad azioni a effetto ma a bassa intensità.

Non così Gaza dove, la rimodulazione delle truppe nel nord, si riaccompagna a una massiccia campagna aerea nell’area meridionale dove, secondo l’intelligence israeliana, sarebbero fuggiti i vertici di Hamas. Là, però, sono sfollati anche quasi tutti i 2,3 milioni di abitanti. Quasi due milioni di persone ammassate in una spazio limitatissimo. Non sorprende, dunque, l’elevatissima perdita di vite umane. Il bilancio di vittime ha raggiunto l’assurda quota di 22.700, altre 162 nelle ultime 24 ore. È vero che a fornire i dati è il locale ministero della Sanità, controllato da Hamas e che queste non distinguono tra combattenti e non.

Le cifre sui civili morti, però, sono considerate attendibili dalle principali organizzazioni internazionali. Il livello di distruzione – in base all’analisi delle immagini satellitari – ha superato quello dei recenti conflitti, dalla “battaglia di Aleppo” all’assedio di Mariupol.

Secondo l’esperta di Shelter Cluster, Balakrishnan Rajagopal, si configurerebbe un nuovo tipo di crimine: il “domicidio”, ovvero la sistematica e deliberata devastazione di case e infrastrutture di base in modo da renderle inabitabili. Se Gaza paga il prezzo più alto, l’impatto della “guerra lunga” è forte anche su Israele. Almeno 175 soldati di Tsahal sono morti nell’enclave, dove 132 ostaggi continuano ad essere prigionieri.

Con il turismo fermo e buona parte della manodopera impegnata al fronte, il conto economico dell’offensiva si profila salato: 53 miliardi di euro. E la somma è destinata a crescere insieme al prolungarsi delle operazioni. In questo scenario, quanti possono essere in concreto i «molti mesi» evocati da Netanyahu?

«Il punto è che Israele non sa come uscire dal conflitto. Perciò va avanti», sottolinea Yonatan Mendel, esperto di studi mediorientali dell’Università Ben-Gurion e tra i più accreditati studiosi di Gaza. «L’obiettivo per cui è stata scatenata l’offensiva – l’eliminazione di Hamas – non può essere raggiunto per via militare. Il gruppo islamista è un’idea, non solo un movimento. E, paradossalmente, la guerra l’ha fatta espandere». È il caso della Cisgiordania. Secondo il Palestinian centre for policy and survey research, nei Territori, il sostegno alla formazione ha raggiunto quota 70 per cento, più come alternativa all’inerzia dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), in realtà, che per adesione ideologica. «Palestina e Israele condividono un analogo problema di leadership. Gli abitanti della Cisgiordania non si sentono rappresentati da Abu Mazen. E nello Stato ebraico, Netayahu, era screditato prima del 7 ottobre. L’offensiva gli ha consentito di “congelare” la questione. Per questo ha necessità di prorogarla quanto più possibile. Un dramma perché il momento è cruciale. Il 7 ottobre ha mostrato in modo plateale il pericolo della sistematica elusione da parte della politica del conflitto israelo-palestinese. Una guerra cominciata decenni prima del 7 ottobre, da cui questo deriva. E che l’operazione militare su Gaza non può risolvere. Decine di migliaia di morti dopo, siamo allo stesso punto di tre mesi fa. È deprimente. La sola speranza, ora, viene dalla pressione della comunità internazionale perché sia affrontata la questione palestinese». Proprio in questi giorni è in corso la quinta missione del segretario di Stato Usa, Antony Blinken, in Medio Oriente dall’inizio della crisi. Ieri, il capo della diplomazia di Washington ha incontrato il presidente turco, Receep Tayyip Erdogan, a Istanbul e il ministro degli Esteri, Hakan Fidan, ha insistito per una tregua immediata. Dopo la tappa in Grecia, domani Blinken tornerà a Israele. Alla vigilia del tour, il capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, gli ha inviato un video-messaggio per chiedergli di «fermare l’aggressione contro i palestinesi». In realtà, al di là delle strumentalizzazioni del gruppo armato, la Casa Bianca mostra un fastidio crescente per il prolungarsi delle ostilità. Finora, però, Netanyahu è stato irremovibile. «La guerra – è il leitmotiv – andrà avanti ancora molti mesi".


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