Basilan è il punto accessibile agli stranieri più vicino all’impenetrabile isola di Jolo, dove il 15 gennaio sono stati rapiti tre operatori della Croce Rossa, tra cui l’italiano Vagni. Mentre ci avviciniamo a bordo di uno dei traghetti che fanno la spola con la città di Zamboanga, a un’ora e mezza di navigazione da qui, Aminda Sãno, laica consacrata, coordinatrice del Movimento per il dialogo islamo-cristiano Silsilah, spiega: «Oggi Zamboanga, Basilan e Jolo rappresentano il triangolo dei rapimenti nelle Filippine. Nella sola Basilan si sono verificati in pochi mesi 38 sequestri di persone: un nuovo mercato che garantisce introiti facili e sta paralizzando la vita dell’isola, aumentando esponenzialmente la tensione». A Basilan e nella vicina Jolo ha le sue roccaforti il gruppo terrorista conosciuto nel mondo come Abu Sayyaf. Martedì scorso uno dei tre rapiti, la filippina Lacaba, è stato liberato, ma ieri i terroristi sono tornati a minacciare la decapitazione degli altri due se l’esercito filippino non si ritira da alcuni villaggi. Storie di sangue e violenza che sembrerebbero estranee a un panorama che evoca sentimenti opposti: foreste tropicali, dolci colline, spiagge bianchissime con barriere coralline, su cui si affacciano case in legno issate su piattaforme, simili a palafitte. Basilan potrebbe far concorrenza a Borocay, la più rinomata località turistica filippina, se non fosse nella morsa di una violenza assurda. A tre ore di navigazione da qui, l’inaccessibile Jolo. I cristiani lì sono appena il 3 per cento della popolazione, a larga maggioranza musulmana. «La comunità locale ha pagato un prezzo altissimo per la sua testimonianza: in pochi anni a Jolo sono stati ammazzati un vescovo, Benjamin de Jesus, e due sacerdoti, tutti filippini. Eppure, ai funerali del vescovo molti musulmani sono andati in cattedrale per solidarizzare con gli amici cristiani», racconta suor Maripol, che viene ad accoglierci al porto, inconfondibile nell’abito blu e bianco delle Oblate di Notre Dame. Essere cristiani a queste latitudini significa esporsi ad alti rischi. Padre Sebastiano D’Ambra, siciliano, missionario del Pime nelle Filippine da oltre 30 anni e promotore del Silsilah, conferma: «A Jolo il Silsilah di recente ha collocato, nel centro della città, un piccolo monumento chiamato Harmony Post con un messaggio di pace in inglese e in arabo. Per una singolare coincidenza, i tre della Croce Rossa sono stati rapiti vicino all’Harmony Post e io ero lì il giorno prima per l’inaugurazione del monumento. Come si fa a non scoraggiarsi davanti a fatti del genere? Ma io ripeto a me stesso e agli altri: non possiamo arrenderci ora». Anche il vescovo della piccola prelatura di Basilan, monsignor Martin S. Jumoad, è uno che non molla. Qualche mese fa autorevoli esponenti dell’ala più oltranzista della galassia musulmana gli hanno recapitato una lettera con cui chiedevano, a lui e ai cristiani dell’isola, di versare la jizya, la tassa che storicamente veniva imposta ai cristiani sottomessi all’islam. Il presule, per tutta risposta, ha fatto una lettera aperta. E il gruppo Silsilah, che raduna credenti di entrambe le religioni, è intervenuto pubblicamente in difesa del vescovo spiegando perché si trattasse di una richiesta fuori luogo. Risultato: della tassa islamica nessuno più parla. Un altro aneddoto emblematico. Proprio di fronte all’isola di Basilan, presso Zamboanga, è attivo l’Euntes, un centro di formazione condotto dal Pime per preti, suore e laici provenienti da tutta l’Asia. Il rettore, padre Giulio Mariani, racconta che durante i corsi estivi è prevista una 'visita guidata' a Basilan. Ma, trattandosi di un gruppetto di 15-20 sacerdoti e religiose, si muove scortato dai militari; a guidarli è lo spagnolo padre Angel Calvo, ultimo straniero ad aver lasciato l’isola. Appartiene ai clarettiani, una famiglia missionaria presente a Basilan dal 1950 che ha pagato un alto prezzo per la sua testimonianza di fede. Nella qualificata high school dei clarettiani hanno studiato molti figli di musulmani, compreso (ironia della sorte) quell’Adburajak Janajalani che sarebbe poi diventato il capo di Abu Sayyaf. Nel 1993 uno di loro, padre Bernardo Blanco, fu tra le prime vittime di rapimento, ma riuscì a scappare. Nel 2000 un commando di Abu Sayyaf rapì 52 tra studenti e insegnanti; la maggioranza venne rilasciata dopo 4 mesi, mentre sei ostaggi, fra cui padre Rhoel Gallardo, anch’egli clarettiano, vennero uccisi. Fino a pochi anni fa l’isola di Basilan aveva lo stesso nome della cittadina principale. Su pressione musulmana ha lasciato quel nome, troppo legato al ricordo della dominazione spagnola e cattolica, per adottare il nuovo. La città di Isabela, però, non fa parte della regione autonoma musulmana del Mindanao (Armm) perché cristiani e musulmani qui si dividono sostanzialmente in parti uguali; ma c’è chi vorrebbe forzare l’inclusione della città nel territorio che il Milf rivendica come ancestral domain (territorio degli antenati). E c’è da scommettere che, se si va avanti di questo passo, i cristiani continueranno a lasciare l’isola. A Basilan la tensione è più che palpabile. Il 15 settembre sono state rapite due donne di origine spagnola, responsabili di altrettante Ong attive nella zona, entrambe liberate dopo alcune settimane. Ma negli ultimi tempi, aggiunge suor Maripol, «ho sentito di sequestri di insegnanti e persino di ragazzi, per di più fatte da giovani ai quali i 'professionisti' delegano il lavoro sporco per timore di finire nelle maglie dei controlli di polizia». Padre Philemon Libot, che ci accompagna col suo fuoristrada per le poche centinaia di metri che separano il porto dalla residenza del vescovo, è finito anch’egli, lo scorso ottobre, vittima di un agguato, pur avendo sei uomini di scorta. Uno di essi ha risposto con le armi alle minacce ed è stato colpito. E così fortunamente i malviventi si sono dileguati. La residenza di bishop Martin è un modesto appartamento in un isolato recintato che comprende piccole strutture ecclesiali. Fuori, una pattuglia di militari vigilia su chi entra ed esce. All’ingresso una jeep semidistrutta è issata su un basamento, a mo’ di triste memento: un monumento che ricorda il sacrificio 5 catechisti della parrocchia di St Vincent Ferrer, uccisi in un agguato nel 1999. «Questo non è un conflitto religioso, ma una lotta per il potere – dice una religiosa –. Qui e in Jolo poche famiglie musulmane si contendono l’egemonia. Di volta in volta l’esponente di una occupa il posto di sindaco e l’altra di governatore, la volta dopo si cambiano i posti, ma gli attori sono gli stessi. Lo stesso vale per Abu Sayyaf: è una guerra di potere e di soldi. La religione non c’entra». Ma come si fa a vivere nel pieno di un conflitto tra le due comunità? «Cerchiamo di essere fedeli, al Vangelo e alla gente – è la risposta –. Noi siamo qui per testimoniare una volontà di pace che non si arrende di fronte alla violenza. Una sete di pace che, a dispetto delle apparenze, è nel cuore di tutto la gente comune, tanto dei cristiani quanto dei fratelli musulmani».