La Regina dell’Albania è tornata a casa dopo 48 anni. La portò con sé a Gallarate il gesuita padre Fulvio Cordignano nel 1946 quando, con il regime comunista appena insediato, s’era subito capito che i preti, la Chiesa e le Madonne qui avrebbero avuto la vita difficile. «Lascio il compito ai miei confratelli di riportarla in Albania quando sarà possibile», scrisse sotto la statuina di legno. Lo hanno fatto nel 1994, dopo circa mezzo secolo. Adesso è nella cappella del complesso dei gesuiti di Scutari. La statuina policroma è un piccolo segno del risveglio religioso, fatto di entusiasmi, di sforzi e di speranze che l’Albania vive dopo il comunismo. Si è dovuto partire daccapo, perché anche per i cattolici è mancata la generazione di mezzo. Dal 1992, nel seminario interdiocesano di Scutari sono entrati 213 giovani albanesi e 20 sono diventati preti. Altri quattro sono stati ordinati in Italia. Don Artur Jaku è l’ultimo ad aver cominciato il suo ministero qualche settimana fa. In questi 18 anni della nuova Albania, coloro che erano di tradizione cattolica hanno ripreso la pratica religiosa; ci sono poi i teardhurit ( i venuti): quei fedeli che non sono battezzati e non ancora lo chiedono, ma vogliono essere indirizzati sulla via della fede. «I nuovi – dicono i padri – cercano due cose: l’approfondimento della dimensione spirituale e l’incoraggiamento di una Chiesa che è presente e attiva nella vita sociale albanese». Prima dell’avvento del regime di Hoxha, l’Albania religiosa poteva essere divisa in tre: il Nord tradizionalmente cattolico con il 10 per cento della popolazione; il Sud ortodosso con il 20 per cento e il resto del Paese legato a un islamismo sostanzialmente tollerante. Tutto però fu cancellato nel 1967. Nei primi mesi di quell’anno terribile, il regime, pensando di cancellare Dio, distrusse 2.169 edifici di culto, oppure cambiò la loro destinazione. La geografia è mutata un poco con il ritorno della democrazia. L’islam ha perduto parte dei vecchi fedeli a favore della Chiesa cattolica e di quella ortodossa. Sicché è ancora difficile stimare il numero preciso delle persone che hanno riabbracciato una fede. I cattolici sono circa mezzo milione, divisi in 5 diocesi e un’amministrazione apostolica, con oltre trenta congregazioni religiose maschili e almeno il doppio sono quelle femminili. L’altra presenza storica, oltre ai gesuiti, è quella dei francescani. Oggi sono trenta, e anche tra i frati è mancato l’insegnamento e la guida di una generazione mediana. Sopravvissuti al comunismo, oggi rimangono soltanto padre Costantino Pistulli alla bella età di 91 anni, e padre Ambrose Martini di 82. Padre Gazmend Tinaj è il provinciale dell’Albania. Ordinato nel 2001, fa parte del secondo gruppo dei nuovi sacerdoti albanesi. « Noi – dice nella casa francescana di Scutari – confessiamo ore, ore e ore. Non siano un centro d’ascolto, si faccia attenzione: gli albanesi chiedono un’attenzione sacramentale». È anche questo un segno del risveglio religioso albanese. Il giovane frate usa una parola che non ne ha una equivalente in italiano, kthjell, che sta ad indicare l’acqua diventata limpida quando i detriti si sono sedimentati: « La fede – dice – è ancora un’acqua torbida che ha bisogno di schiarirsi. È necessario alimentare e incoraggiare questa fede che resta un sentimento di fondo nell’animo degli albanesi, e per far questo serve un grande lavoro » . La rinascita non poteva sfuggire a un fine intellettuale come Fatos Lubonja, autore tra l’altro di
Intervista sull’Albania (Il Ponte, Bologna). Laico, a lungo perseguitato dal regime, di recente ha dedicato il numero della sua rivista Perpjekja alla fede degli albanesi. « Adesso – dice – viviamo la fase in cui va ricostruito lo spirito, ed è ancora da vedere la capacità che avranno le Chiese di riuscirci, perché oggi devono fare i conti con la difficoltà economica sentita ancora da tantissimi albanesi » . Lubonja avverte il pericolo che tanti possono diventare prede delle mille chiese ( o sedicenti tali) e sette che sono calate in Albania. Sulla necessità di una fede pura insistono diversi gruppi, come i Focolari, che operano in Albania da diversi anni: « Cerchiamo di far capire, e non è semplice – dice Damiano Bertoldo –, che oltre ai beni ci sono anche i valori». Su questo piano opera il Movimento di Comunione e Liberazione, un’altra forte presenza in Albania. L’Avsi, diretta da Federico Berto, anima progetti socio educativi a sostegno dei minori e per favorire la formazione delle risorse umane. I quattro culti riconosciuti dal governo albanese (quello cristiano, cone le Chiese cattolica e ortodossa, l’islam e i Bektashiti) si sono impegnati negli ultimi anni in un proficuo sforzo di dialogo inter religioso. È invece molto avanti il percorso ecumenico, e padre Ignazio Buffa, parroco della chiesa dei gesuiti di Tirana, spiega come questo confronto, che esiste già nella base dei fedeli, possa dare buoni frutti: « A livello istituzionale è stato possibile – dice – uno scambio filosofico e teologico tra le diverse facoltà di teologia; tra i giovani, poi, è stato avviato un cammino di preghiera insieme agli ortodossi e agli evangelici » . L’intento adesso è quello di individuare tre gruppi di giovani per attività comuni sotto l’aspetto religioso e sociale. È viva e rinata la Chiesa ortodossa che per ogni cosa utilizza il termine Ngjallia (Nascita), e così si chiamerà, infatti, anche la nuova cattedrale che sta sorgendo nel centro di Tirana. Da quando in Albania è stato possibile alle Chiese di esprimersi ed operare, quella ortodossa ha formato già 147 sacerdoti. « Anche noi – dice Jorgo Papadopuli, giovane teologo e direttore di un progetto che anima 52 case per giovani – abbiamo dovuto ricominciare daccapo, anzi siamo ripartiti da meno zero. I sacerdoti, dopo tanti anni di repressione, avevano dimenticato perfino come celebrare i riti. Lo sforzo del primate Anastasios Yannoulatos è stato proprio quello di creare dal nulla un nuovo clero » . Nato più che rinato: ngjallia, appunto.