«Non c’è cibo né acqua. Come faranno a sopravvivere?». È angosciato Silver Decayette, sindaco di Anse-a-Pitre, municipio nel sud di Haiti, lungo la frontiera con la Repubblica Dominicana. Nelle ultime settimane, il primo cittadino ha visto più che triplicare la popolazione urbana. Poco fuori dal centro, si estende un’enorme baraccopoli. Gli operatori dell’associazione umanitaria Social Tap hanno visitato l’accampamento, la prima volta, il 28 giugno. Quando sono tornati, il 20 luglio, sono rimasti senza fiato: «Avevamo lasciato un posto con poche decine di tende. E ora, invece, queste si estendevano a perdita d’occhio». Giorno dopo giorno, spuntano nuove baracche. Anse-a-Pitre è uno dei tre principali “insediamenti” spontanei – come li definisce il governo di Port-au-Prince – in cui si ammassano gli haitiani rimpatriati dalla Repubblica Dominicana. Almeno quelli che non hanno parenti nel Paese d’origine disposti ad ospitarli. «In realtà, dovremmo chiamarli campi per rifugiati», afferma Jean-Sebastian Jerome, funzionario del registro nazionale dell’Organizzazione mondiale delle migrazioni. «Sono vere e proprie città-tendopoli. E la situazione sta peggiorando», aggiunge. Secondo le fonti umanitarie più caute, almeno 40mila haitiani – di nascita o di origine – hanno varcato il confine, lasciandosi alle spalle Santo Domingo, in meno di due mesi. La cifra reale, però, potrebbe essere ben più alta: altri attivisti parlano di una media di 8.500 arrivi alla settimana. Il “grande esodo” è iniziato subito dopo la scadenza, il 18 giugno, del grande “Piano nazionale di regolarizzazione degli stranieri” realizzato dall’esecutivo dominicano. Tale programma, in teoria, avrebbe dovuto legalizzare la presenza nel Paese del mezzo milione di migranti arrivati prima del 2011, per l’87 per cento haitiani in fuga dalla povertà cronica della loro terra. E mettere fine al “limbo” in cui si erano trovati circa 200mila discendenti di haitiani privati della cittadinanza dalla Corte suprema nel 2013. Con una sentenza choc, i giudici hanno tolto la nazionalità ai figli di migranti irregolari, benché nati in territorio dominicano. A rendere ancor più controversa la decisione, i suoi effetti retroattivi fino al 1929. La quota lasciata, da un giorno all’altro, senza documenti, è stata enorme. I risultati della regolarizzazione, invece, appaiono quantomeno “modesti”. Appena 288mila haitiani sono riusciti anche solo a presentare domanda per il permesso. Il resto – oltre 200mila persone – è stato tagliato fuori. Le cause sono molteplici. Per tanti è stato impossibile mettere insieme i 333 dollari necessari per la richiesta. Altri sono stati vittime di abusi e irregolarità, denunciate da varie organizzazioni tra cui Amnesty International. Altri ancora sono più banalmente rimasti intrappolati nel caos burocratico. «Non ci vogliono. Non ci hanno mai voluto», si accalora Alida, riferendosi alle croniche frizioni tra le due nazioni che formano l’isola di Hispaniola. Il flusso da Port-au-Prince a Santo Domingo risale ai primi del Novecento, quando decine di migliaia emigrarono per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero. In condizioni disumane. La loro presenza massiccia ha dato luogo a cicliche esplosioni di razzismo. Il ricordo del massacro di 10mila haitiani, ordinato dal dittatore dominicano Leónidas Trujillo nel 1937, è ancora vivo nella memoria della comunità. Le deportazioni perpetrate da Santo Domingo, nel tempo, poi, hanno tenuto vivo un certo timore nei migranti. Stavolta, l’Onu e l’Organizzazione degli Stati americani hanno chiesto al Paese di evitare i rimpatri di massa. E quest’ultimo, formalmente, si è impegnato a garantire un processo lento e graduale. I 40mila rientri sarebbero, dunque, in gran parte, “volontari”. «Figuriamoci. Ci hanno messo con le spalle al muro. La campagna sui media è martellante: dicono che chi è fuori dal piano deve andare via. Perfino i vicini bussano a casa per chiederci quando partiamo. Abbiamo paura di venire catturati per strada ed espulsi con solo quello che abbiamo indosso, come è capitato a tanti. Per questo preferiamo andarcene da soli», racconta Rafal, 32 anni, da 10 a Santo Domingo. «Se me ne vado “spontaneamente” riesco almeno ad incassare la liquidazione. Se mi catturano e mi deportano non avrò nemmeno quello», afferma Leonie, da 17 anni nel Paese. La Chiesa dominicana, di fronte all’emergenza, ha esortato le due nazioni al dialogo per risolvere la crisi. Finora, però, non ci sono stati progressi. Nel frattempo, i passi di frontiera sono affollati dai camion degli “auto-rimpatriati”. Sui tetti, alcuni hanno legato mobili e materassi anche se, dall’altra parte del confine, non hanno una casa dove portarli. Né un lavoro che permetta loro di affittarla. Haiti, la più povera nazione dell’Occidente, è tuttora alle prese con la crisi post terremoto del 2010. Per questo, tanti si ritrovano a Anse-a-Pitre. E, tenda dopo tenda, la cittadella dei rimpatriati si estende.