È passato un anno dall’uccisione in Pakistan di Osama Benladen da parte delle truppe speciali statunitensi, mentre l’America alza il livello di guardia nel timore di attentati dimostrativi in vista dell’anniversario del 2 maggio.Eppure il suo nome, dopo una latitanza durata ben dieci anni, sembra già scivolato fuori dagli avvenimenti contemporanei. Non è solo un caso di rimozione collettiva nei confronti dell’uomo che ha condizionato più di ogni altro lo scorso, infausto, decennio; più semplicemente, si trattava di un personaggio sopravvissuto al sostanziale fallimento del suo progetto.Non che il nome di al-Qaeda sia scomparso dalle cronache, anzi: ormai essa è una griffe talmente conosciuta da essere utilizzata da moltissimi movimenti jihadisti e del terrorismo globale in cerca di risonanza e visibilità. Ma il suo modello di organizzazione con un nucleo forte di dirigenti che indirizzano poi una struttura tentacolare di cellule attive nelle varie aree di scontro con i «crociati e i nemici dell’islam» non sembra più esistere, divelto dalla sistematica caccia contro i suoi leader da parte degli Stati Uniti e dal proprio fallimento nel mobilitare le masse di fedeli.Dal nuovo leader di al-Qaeda, al-Zawahiri, non si ricevono più proclami da quasi un anno. Un tempo troppo lungo da parte di chi doveva rincuorare i propri sostenitori e affiliati dopo la morte del capo storico. Non ci si illuda tuttavia che, se il nucleo originario del movimento è confinato nella quasi inazione, il fenomeno del jihadismo globale sia pressoché debellato. Al contrario, il sostanziale fallimento della Nato in Afghanistan rappresenta una vittoria straordinaria – di immagine e non solo – per la galassia dei taleban, attorno alla quale ruotano una varietà di movimenti, predicatori, attivisti con aspirazioni e obiettivi a volte diversi, ma collegati a una visione dogmatica e intollerante dell’islam. Il nostro fallimento nello stabilizzare l’Afghanistan ha finito per creare un ambiente favorevole alla loro moltiplicazione soprattutto in Pakistan, il Paese che vent’anni fa creò i taleban e che ha sempre avuto rapporti ambigui con al-Qaeda. I recenti grandi attentati che hanno colpito Kabul, per fare un esempio, sembrano essere stati organizzati da jihadisti del gruppo Haqqani, radicato più in Pakistan che in Afghanistan. E non vi siano dubbi sulla capacità dei servizi militari pachistani dell’usare cinicamente la carta del terrore, se dovesse essere funzionale ai loro interessi.Parallelamente però, si è assistito anche a un diverso fenomeno, quello della nascita in tutto il mondo di gruppi che si ispiravano e si identificavano come movimenti qaedisti, ma privi di reali rapporti strutturati con il nucleo direttivo originario. È questo uno dei frutti più avvelenati e perniciosi lasciatoci da Osama Benladen: la creazione di una sorta di franchising del terrore, possibile grazie alla semplificazione estrema del messaggio qaedista. La sua ideologia ruota infatti attorno a un concetto sovra-semplificato privo di sfumature, profondità sociale o culturale: l’islam è sotto l’attacco di potenti nemici esterni e interni che usano ogni mezzo per distruggerlo. Ogni musulmano vero deve reagire e lottare per la sua difesa in ogni luogo e usando ogni mezzo. Ogni obiettivo è lecito.Per quanto rozzo e bugiardo, la semplicità di questo messaggio ne ha permesso la propagazione via Internet e la diffusione grazie anche alla spettacolarità degli attentati che ha sempre contraddistinto al-Qaeda, dando risposte facilmente adattabili alle diverse situazioni di crisi, conflitto e disagio. Un po’ come quei mobili che comperi e porti via, montandoteli poi da solo come riesci. Nascono da qui le varie al-Qaede attive, con diverse fortune, in Medio Oriente, Africa ed Europa.Prima di morire Benladen ha assistito alle rivolte arabe che hanno abbattuto regimi suoi nemici. Ma il segno della sua marginalizzazione stava negli slogan che lo scorso anno scandivano i giovani nelle piazze. Si parlava di lavoro, dignità, libertà. Temi antitetici al suo logoro messaggio di odio e di morte.