Bambini in fuga dalla distruzione dopo un raid a Khan Yunis - Reuters
Una polveriera. Per farla esplodere basterebbe un cerino. Un’epidemia, ad esempio. E il primo caso di poliomielite nell’area umanitaria della Striscia di Gaza, registrato pochi giorni fa, preoccupa. Tanto che l’Unione Europa ha invocato tre giorni di tregua per consentire la vaccinazione. Caritas Gerusalemme, i cui operatori non hanno mai lasciato la Striscia (due vi sono morti), si prepara a somministrare i vaccini con le sue 14 squadre mediche coordinate da 7 centri (altri due non sono operativi per ragioni di sicurezza), sia nel nord di Gaza City, nella parrocchia della Sacra Famiglia, sia nel centro-sud a Khan Yunis e Deir al-Balah.
Tra un mese dovrebbe essere attiva anche la missione di Emergency, che ha già dato la propria disponibilità a vaccinare all’Organizzazione mondiale della Sanità. Era da gennaio che Emergency si preparava per entrare a Gaza: sotto l’aspetto organizzativo, finanziario, burocratico. Il 15 agosto vi ha messo piede con i primi due operatori logistici incaricati di aprire la strada a medici e infermieri. E ieri l'ha annunciato.
Se lavorare in un teatro di guerra è sempre complesso, avviare una missione a Gaza è un percorso a ostacoli. «Qui più che altrove conta la collaborazione tra Ong, fatta di contatti personali e informali. Perché chi è dentro conosce la difficoltà» spiega Alessandro Manno, che ha coordinato il progetto. Primo ostacolo: entrare. Con il valico egiziano di Rafah chiuso da fine maggio, quando l’esercito ne ha occupato il lato palestinese, e il valico di Erez con Israele, a nord, scollegato dall’area umanitaria, l’unico passaggio utile è il valico israeliano di Kerem Shalom (a sud, vicino a Rafah) arrivando dalla Giordania. Praticamente si costeggia la lunghezza della Striscia dal territorio israeliano. «L’accesso a Gaza – osserva Manno – è consentito solo ai convogli Onu previo via libera del Cogat, l’organismo al quale si affida la Difesa israeliana. Ormai non partono più di due convogli alla settimana, di 5 o 6 veicoli. I posti sono pochissimi. Servono a garantire il ricambio del personale straniero. Dopo mesi di attesa, e sotto l’ombrello legale dall’Oms, finalmente abbiamo portato nella Striscia due persone».
Il materiale sanitario dovrà attendere. «Prima bisognerà individuare il terreno dove costruire la struttura, tendata o comunque leggera. Forniremo prima emergenza e stabilizzazione, in caso di traumi e ferite prima dell’invio in ospedale, ostetricia e assistenza infermieristica». A dilatare i tempi sono le regole decise dal Cogat: pensate per bloccare ogni tipo di aiuto ad Hamas, impongono lunghi iter di approvazione per materiali quali pannelli solari, sterilizzatori, concentratori di ossigeno («indispensabili per pazienti con difficoltà respiratorie, non essendoci bombole»). E fissano un tetto al denaro contante «pari all’equivalente grosso modo di 3.000 dollari a persona». Una cifra ridicola per mettere in piedi una struttura sanitaria. «L’Oms ha materiali sul posto da donare, per il resto dobbiamo acquistarli sul mercato locale dove il prezzo del cemento è quadruplicato e quello dei generatori decuplicato».
Una volta superati gli ostacoli, Emergency conta di far arrivare 6 o 7 operatori sanitari e assumerne una ventina sul posto. «Con gli ospedali semidistrutti e i civili evacuati, nella zona umanitaria sono molti gli infermieri che cercano lavoro».
La situazione tra gli sfollati è allarmante. Sovraffollamento, condizioni igienico-sanitarie precarie, carenza di acqua potabile e di cibo. «I nostri due colleghi sono esperti – assicura Manno –. Hanno lavorato in Afghanistan e in Ucraina. E abbiamo una base logistica ad Amman. Ma i rischi per la sicurezza vanno valutati di giorno in giorno». Lunedì l’Ocha, l’ufficio umanitario dell’Onu, ha minacciato di lasciare Gaza a causa dei continui ordini di evacuazione. «Mi rifiuto di pensare che Ocha voglia andarsene, spero che stia facendo pressione per ottenere garanzie. Se mollasse – riflette Manno – non solo verrebbe a mancare il coordinamento ma darebbe un segnale negativo a tutte le Ong». Come dire: non ci sono più nemmeno le condizioni di sicurezza per portare aiuto.