venerdì 19 agosto 2016
​Manifestazioni in piazza contro la strategia spiccia del presidente Duterte. Il rischio di una nuova dittatura. 
Vigilantes anticrimine, Filippine nel sangue

Xinhua

COMMENTA E CONDIVIDI
Duterte “il giustiziere” è inarrestabile. Sa di avere dalla sua parte i filippini, inclusi quelli della diaspora che temono per la sorte delle loro famiglie in patria davanti a una criminalità spicciola e a un traffico di droga che hanno acquisito dimensioni epidemiche. Per questo rompe consuetudini e protocolli, aggredisce i diplomatici in dissenso, impone il silenzio a Onu, Usa e Ue e si pone ormai in aperto contrasto con la Chiesa dell’arcipelago che parla di «killing fields» filippini, un paragone con i massacri del regime dei Khmer Rossi nei pochi ma feroci anni di controllo sulla Cambogia.  Con il neo-presidente in carica dal 30 giugno sono popolo, politica (con non poche “conversioni” sospette), Forze armate e polizia. Quest’ultima incentivata da premi per l’uccisione di criminali che non si arrendono e dalla piena assoluzione da ogni arbitrio. La militanza islamista nel Sud, alimentata da espropri, sequestri per riscatto e saccheggi, tentenna ma teme l’offensiva finale che altri hanno solo promesso ma Rodrigo Duterte sembra volere; i guerriglieri maoisti del Nuovo esercito del popolo sono arruolati tra i “giustizieri” in cambio di amnistie e di un rientro dall’esilio olandese del leader storico del Partito comunista filippino e loro guida ideologica, Jose Maria Sison. Anche la tradizione cattolica deve fare i conti con l’impegno del leader per la laicizzazione dello Stato, oltre che al suo decentramento, con la volontà di sradicare micro-criminalità, accattonaggio e vizio con sistemi sovente senza appello e con il prospettato recupero della pena capitale. Crescono intanto rapidamente i morti nella “guerra” contro i reietti del Paese. Che non coinvolge solo criminali incalliti, ma anche tossicodipendenti e bambini di strada. A migliaia sono finiti in carceri per le quali l’appellativo di «i- numane» suona lenitivo, in condizioni condannate da tante organizzazioni locali e internazionali. L’8 agosto, l’alleato statunitense ha veicolato la preoccupazione di Nazioni Unite e gruppi per i diritti umani chiarendo per bocca della portavoce del Dipartimento di Stato americano Elizabeth Trudeau, che Washington «è preoccupata per queste incarcerazioni, come pure per le uccisioni extragiudiziarie di individui sospettati di essere coinvolti nel traffico di droga ». In queste settimane l’andirivieni negli istituti di pena è continuo: alcuni restano quando accertata la loro appartenenza a traffici illeciti, molti escono dopo avere visto l’inferno e avere abiurato vizi e necessità.   Sono quasi 600mila i tossicodipendenti che si sono finora “arresi”, quindi consegnati, per evitare di essere ammazzati in strada; 7.000 quelli riconosciuti come criminali e incarcerati; e forse 700 quelli uccisi dalla vittoria di Duterte alle presidenziali del 9 maggio. Tuttavia, il pugno di ferro del presidente non riguarda solo la manovalanza del crimine e chi ne dipende a vario livello, come pure qualche boss costretto a consegnarsi con il ricatto per la sorte della famiglia. Solo martedì scorso, Duterte ha minacciato il giudice di grado massimo nel Paese, la presidente della Corte suprema Lourdes Sereno, che si era detta preoccupata dopo che il presidente aveva pubblicamente sconfessato sette giudici (di cui uno già morto assassinato anni fa) per presunto coinvolgimento nel narcotraffico e chiesto a una trentina tra magistrati e politici di «arrendersi» per scontare crimini di droga.  «Vai avanti e prova a fermarmi», aveva detto Duterte alla giudice suprema. «Preferisci forse che dichiari la legge marziale?». Difficile non concordare con Sereno e molti altri nel Paese che il rischio di una nuova dittatura dopo quella di Ferdinand Marcos finita nel 1986 è già tra le possibilità.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: