Pensate a due fratelli e a un enorme patrimonio custodito gelosamente dal padre. Uno dei figli, notoriamente il più scapestrato, per mettere le mani sul denaro, non esita a uccidere. E tenta di far cadere la colpa sull’altro. Per gettare luce sul delitto, niente di meglio che ricorrere al test del Dna. Ma, sorpresa, il risultato inchioda proprio il ragazzo angelico e insospettabile: quelle poche gocce di sangue trovate dalla polizia appartengono a lui. L’accusa non ha più dubbi. La giuria sembra condotta a una condanna annunciata. Eppure, l’errore giudiziario sta in agguato. Com’è possibile? La prova genetica è considerata regina, quella che dà una quasi infallibile certezza del coinvolgimento in un crimine o permette di sostenere l’estraneità alla scena del delitto. Da quando è stata introdotta (l’Fbi americano ha cominciato a utilizzarla nel 1988, la sua "invenzione" risale a quattro anni prima) ha risolto moltissimi casi e tante vicende oscure del passato trovano una rilettura grazie alla tecnica allora indisponibile. Il test del Dna, ormai famosissimo grazie a tv, cinema e letteratura, ha anche salvato la vita a 17 condannati a morte negli Stati Uniti, trovati innocenti dopo la condanna attraverso il ricorso all’analisi genetica. Il perfezionamento della tecnica promette oggi sempre maggiore accuratezza e in pochissimo tempo, forse dall’anno prossimo, la polizia americana potrà contare su dispositivi capaci di leggere in tempo quasi reale il profilo cromosomico di persone sottoposte a fermo. I problemi di privacy sono ben noti. Ma un recentissimo lavoro scientifico condotto da ricercatori di una società privata e della polizia israeliana sembra avere inferto un duro colpo alla possibilità di mantenere quello del Dna come unica e inconfutabile elemento d’incolpazione nel processo penale. È stato infatti dimostrato che risulta possibile fabbricare in laboratorio prove genetiche assolutamente indistinguibili, perfino senza possedere materiale organico della persona in questione: basta avere accesso alla "scheda" di quell’individuo custodita in una banca dati, sia giudiziaria sia medica. E il compito è alla portata di un biologo senza particolari competenze in materia. «Si può facilmente manipolare la scena di un crimine», ha spiegato al New York Times Dan Frumkin, primo autore dello studio, pubblicato su Forensic Science International: Genetics. Lo scopo della Nucleix, l’azienda per cui lavora, non è del tutto disinteressato: la compagnia bio-tech di Tel Aviv ha messo infatti a punto un proprio test pensato per distinguere veri campioni di Dna da quelli "costruiti". Torniamo ai due fratelli. È sufficiente prendere un mozzicone di sigaretta, un capello o un bicchiere da cui si è bevuto per estrarre il Dna del soggetto e creare un campione da rimettere su un’arma o su un passamontagna nella forma di uno schizzo di sangue o di una goccia di saliva. Non serve nemmeno un’abilità particolare, molti biologi (se disonesti) possono compiere un’operazione simile, senza bisogno di attrezzature speciali. Ed è forse possibile suddividere il "lavoro" in forma anonima tra centri che si occupano di genetica, facendo gli ordini via Internet, inviando e ricevendo i campioni per posta.Il punto chiave è che i ricercatori israeliani hanno inviato armi e altri oggetti "sporcati" a laboratori utilizzati dalla Giustizia americana e nessuno dei tecnici abilitati ha notato nulla di anomalo analizzando la traccia. In un caso, dal sangue di una donna sono stati tolti i globuli bianchi (che contengono il Dna) e a esso sono poi stati aggiunti frammenti genetici tratti dal capello di un uomo. Tale reperto, sottoposto a uno dei centri più importanti negli Stati Uniti, è stato tipizzato senza incertezze come un profilo maschile. I risultati dello studio di Frumkin e colleghi sono stati giudicati «preoccupanti» dall’American Civil Liberties Union: «Il Dna pare più facile da spargere sul luogo di un delitto delle stesse impronte digitali. E noi stiamo costruendo un sistema penale che sempre più si basa su questa tecnica probatoria». Qualche perplessità è manifestata invece da Pietro Liò, docente di Bioinformatica all’università di Cambridge. «Difficile "invecchiare" e "frammentare" il Dna nel modo in cui di solito si presenta sulla scena del crimine – spiega –. Certo, oggi la tecnologia progredisce in modo rapidissimo e permette manipolazioni sempre più sofisticate. Che richiedono un supplemento di attenzione e ricerca. A favore della prova del Dna, va però ricordato che è possibile analizzare il profilo genetico di una persona anche mescolato a 200 tracce di altrettanti individui». Concorda Lucia Bianchi, avvocato in Firenze ed esperta di genetica forense: «Nel caso dei fratelli, la difesa non avrebbe ceduto facilmente. Bisogna considerare l’alibi, il modo in cui le tracce possono essere state lasciate sul luogo del delitto. E poi non c’è solo la prova del Dna. Si considerano, ad esempio, le traiettorie degli schizzi di sangue. L’arma deve essere "truccata" a regola d’arte. Non basta il falso campione con cui sporcarla. Insomma, le falsificazioni mi sembrano molto difficili».Resta il fatto che il test del Dna ha perso un po’ della sua aura di infallibilità. Benché la contromossa venga proprio dagli autori dello studio citato. Un’ulteriore analisi può scoprire che il campione genetico è artificiale (grazie al fenomeno della metilazione). Ma nessun laboratorio del mondo la esegue ancora...