venerdì 6 dicembre 2013
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Non dà tregua la campagna del Regno dei Saud contro l’immigrazione irregolare, inaugurata nel mese di novembre e da subito rivelatasi implacabile nei confronti dei lavoratori provenienti dal Corno d’Africa. In particolare, la comunità etiope è nell’occhio del ciclone, colpita più delle altre. Le cifre parlano chiaro: almeno 100mila cittadini etiopi presenti in Arabia Saudita in modo irregolare sono stati rimpatriati contro la loro volontà, in sole quattro settimane di operazioni di polizia. A riferirlo è stato il ministro degli Esteri di Addis Abeba, Tedros Adhanom, che ha annunciato il possibile rimpatrio di altri 50mila connazionali nell’arco delle prossime settimane. «Tutti i cittadini del Paese africano detenuti nei centri di identificazione ed espulsione di Riad sono tornati», ha dichiarato il titolare del dicastero etiope con soddisfazione. Il giro di vite è stato varato dalle autorità saudite a fronte di un grave episodio di cronaca, che ha reso evidente la necessita di un intervento. Terminata l’amnistia di sette mesi, proclamata dal governo per tutti gli immigrati irregolari, alcuni di questi si sono scontrati anche in modo violento con la polizia nel quartiere Manfouah, nel sud della capitale. Molti protestevano per le condizioni di lavoro. Il 9 novembre scorso tre migranti sono morti e 68 sono rimasti feriti. In realtà, le autorità etiopi avevano già proibito alla popolazione di cercare lavoro in Arabia Saudita, sulla scia di denunce, verificate, di maltrattamenti e abusi sui lavoratori del Corno d’Africa.Sulla stampa del Regno, il tema è affrontato solamente in relazione alle misure varate dal ministero del Lavoro per combattere la disoccupazione interna. In particolare, quella femminile, messa al primo posto nell’agenda del ministero per i prossimi mesi. Già dal 2011, Riad aveva cominciato a ridurre la quota di permessi di lavoro concessi agli stranieri, soprattutto a quelli provenienti dalle Filippine, a seguito delle richieste di Manila in materia di rispetto dei diritti dei lavoratori in terra araba. Ora la chiusura si è estesa a quelli etiopi, secondo le autorità spesso responsabili di crimini. Con 91 milioni di abitanti, l’Etiopia è uno dei Paesi più popolosi del continente africano e anche il più povero. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, almeno il 27 per cento delle donne non ha un impiego, mentre sono almeno 13 su cento gli uomini disoccupati. Più della meta della popolazione vive con meno di due dollari al giorno. Eppure si tratta di una delle economie con il migliore tasso di crescita annua, a due cifre. Il giro di vite saudita non ha colpito solo gli etiopi, ma anche i sudanesi, rimpatriati in oltre 11mila dal 13 novembre alla prima settimana di dicembre. Con quello saudita, per la verità, è tutto il mercato del lavoro mediorientale a essere sotto accusa da parte delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani: sono sotto la lente di ingrandimento di Human Rights Watch e Amnesty International anche Emirati Arabi, Bahrein, Oman, Libano e Qatar. Lo schema è comune a tutti: i migranti sono privati dei loro documenti e costretti a lavorare in condizioni disumane per datori di lavoro schiavisti. E se osano protestare, come successo a Dubai nel mese di ottobre, vengono rimpatriati. I maltrattamenti non fanno differenze di sesso o religione: cristiani e musulmani sono trattati come animali, raccontano gli scampati all’inferno arabo.
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