giovedì 4 novembre 2010
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Una "coincidenza" che ha il sapore della sfida evangelica: testimoniare Cristo dove le bombe fanno strage in nome di un’ideologia che stravolge il rapporto dell’uomo con Dio. Proprio dove perfino i preti vengono assassinati mentre officiano la messa, nella terra in cui donne e bambini finiscono sotto le armi come "obiettivi legittimi" di una guerra unilateralmente dichiarata dall’islamismo contro degli innocenti.Don Angelo Rugolotto è un sacerdote salesiano di 63 anni appartenente al cammino neocatecumenale. È arrivato in Iraq appena sette giorni prima della strage nella cattedrale di Nostra Signora del perpetuo soccorso di Bagdad. «Non abbiamo paura di fronte a quanto successo. Dobbiamo essere pronti al nostro fallimento di uomini, ma sappiamo che Dio ci assiste sempre. Per questo siamo tranquilli» dice il religioso al telefono mentre si trova nella città di Zaku, uno dei due centri – l’altro è Erbil, sempre nel Nord del Paese – dove don Rugolotto porta avanti il suo ministero itinerante. Resterà per tre settimane in Iraq, don Angelo, per fare incontri e catechesi nella diocesi di Erbil come offerta di evangelizzazione ai cristiani di questa terra: «Ma se i vescovi e i parroci richiederanno ancora la mia presenza, sono pronto a tornare per annunciare la Parola di Dio. Sono contento di essere qui». Il missionario non manifesta né timore né dimostra sufficienza: «Non sappiamo cosa ci sia dietro a questi attentati. Ma so che il Signore mi vuole qui e per questo non ho paura». Insieme al sacerdote, che proviene dal paese di Vestenanova, sulle montagne veronesi, lavorano una suora libanese, Margareth Lail, e un laico, responsabile della locale missione neocatecumenale, il riminese Filippo Di Mario, 58 anni, in Iraq dal 1990: «Il nostro primo compito è offrire il cristianesimo in questa terra così difficile» spiega con voce appassionata. Cosa significa? «Dobbiamo mostrare la vittoria della vita sulla morte. Di fronte a questi attentati si può chiaramente parlare dell’opera del demonio. Ma la nostra fede in Dio è più forte di tutto».Questi missionari girano nelle parrocchie, promuovono la lettura e la conoscenza della Parola di Dio, organizzano ritiri spirituali: «Ne abbiamo appena finito uno con 70 persone e ce n’è in corso ancora un altro con 120 fedeli in un monastero di monaci ortodossi". Don Rugolotto racconta l’emblematica vicenda di Jeminab, una donna con cinque figli: «Ci ha raccontato: "Grazie a questo ritiro, dopo 10 anni, ho ritrovato la gioia di vivere"». Di Mario motiva così la missione in una terra davvero difficile: «Vivo da tanti anni in Medio oriente e ho capito che dove germoglia una fede matura si scopre la forza di restare, nonostante i gravi problemi. Va combattuto il virus del disfattismo che porta la gente a dire: "Qui non ci sono né lavoro né scuole né vita sociale, e non esistono prospettive". Formando delle piccole comunità cristiane, che leggono e pregano la Bibbia, la gente scopre di avere la missione di non fuggire. Possono sembrare solo delle belle parole, ma sono vere: io ho visto la gente cambiare». Gli fa eco don Rugolotto: «Se lo Spirito Santo cambia il cuore dei cristiani scoraggiati, allora essi diventano un aiuto anche per i musulmani a vivere nonostante gli attentati».Di Mario, che ricorda bene i tempi di Saddam Hussein, con le migrazioni che dal Nord dell’Iraq portavano i cristiani nel più sicuro Sud (oggi è l’inverso), annota: «I politici fanno i loro interessi, la paura si diffonde a macchia d’olio tra le persone, ma i nostri fratelli iracheni hanno bisogno di una nuova evangelizzazione: è la più grande carità che possiamo fare loro, offrire la gioia della vita eterna che ridona la voglia di lavorare, stare in famiglia ed impegnarsi nella società». I due missionari italiani salutano con grande apprezzamento i risultati del recente Sinodo del Medio oriente: «I vescovi ci hanno spronato a recuperare lo spirito della Chiesa primitiva che, sebbene minoritaria, era capace di fronteggiare la forza persecutrice di quanti osteggiavano il cristianesimo. La fede ci dice che la morte è vinta e che Dio è nostro padre. Se siamo testimoni di tali realtà, perfino i musulmani, anche loro tentati dalla fuga dalla violenza, "si convertono", cambiano idea e decidono di restare dove sono. Con una fede matura i cristiani d’Iraq rimangono attaccati alla loro storia».
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