All’ingresso della navata, su una parete scrostata dal fuoco, campeggia un’icona della Vergine. «Hanno tagliato la tela all’altezza del collo, simulando uno sgozzamento – racconta suor Amal Hakim – poi hanno iniziato a gettare benzina ovunque e hanno appiccato il fuoco». La chiesa del Buon Pastore, uno dei punti di riferimento della comunità cattolica di Suez, è andata in cenere in poche ore, lo scorso 14 agosto. Suor Amal si trovava al suo interno, assieme ad altre due consorelle. È riuscita a mettersi in salvo per pochissimo, mentre a Suez e nel resto del Paese andava in scena la giornata peggiore da decenni per i copti d’Egitto. La minoranza cristiana è la vittima sacrificale della battaglia tra militari e islamici, che divampa da due mesi dopo la deposizione del presidente Morsi. Almeno 40 le chiese assaltate in ogni angolo del Paese. Una ritorsione senza precedenti, messa in atto dalle frange più estremiste degli Ikhwan, i Fratelli musulmani, per vendicare lo sgombero violento dei due sit-in di Raba Al Adaweya e Nahda, al Cairo. «Sono arrivati di primo mattino, subito dopo la notizia del doppio blitz dell’esercito – testimonia suor Amal – dapprima erano in pochi, non più di qualche decina. Poi sono andati a chiamare rinforzi. Nel giro di un paio d’ore la chiesa era accerchiata da centinaia di persone armate di coltelli, spranghe di ferro e bottiglie molotov». Suor Amal alterna il suo ottimo francese a qualche colpo di tosse, mentre percorre il refettorio, tra le pareti annerite dal fumo. A distanza di giorni, l’aria è ancora densa di cenere, buca le narici, non fa respirare. Quel giorno assieme a lei, c’erano suor Meriem Younen e suor Matilde Emil, tutte egiziane, tutte suore della congregazione di Nostra signora della carità del Buon pastore. La quarta consorella, suor Odile, italiana di Milano, si trovava invece in uno dei centri che la Fondazione internazionale Good Sheperd gestisce in Libano. «Le fiamme hanno iniziato a divampare ovunque», ricorda suor Meriem, che viene da Minya, nell’Alto Egitto, una delle città più bersagliate dall’odio interconfessionale di queste settimane. «Siamo rimaste bloccate dalla paura – dice –, tutte le porte e le finestre erano ormai avvolte dal fuoco. Sembrava non ci fosse più possibilità di venirne fuori. Siamo riuscite a fuggire da una piccola porta che dà sul giardino, mettendoci in salvo». Nel frattempo gli assalitori facevano scempio dello stabile. Un edificio di quattro piani, sede di una clinica, una biblioteca, locali per le arti e i mestieri. E poi una scuola primaria per circa 500 alunni, un asilo e una casa d’accoglienza per 15 ragazze provenienti da famiglie in difficoltà che, per fortuna, erano in vacanza. Tutto in fumo, tutto da ricostruire. «Hanno scassinato la cassaforte – testimonia Vivian Zakarya, che agli alunni del Buon Pastore insegna l’inglese –, si sono portati via decine di migliaia di euro. E poi le suppellettili, il cibo nelle cucine, i liquori, persino i giocattoli dei bambini e gli abiti delle suore. Hanno dato fuoco all’auto del parroco, quindi se la sono presa con le immagini sacre. Dopo aver forzato la teca che la conteneva, si sono impadroniti di una statua della Madonna e l’hanno gettata nel giardino vicino alla strada. A recuperarla ci ha pensato un passante cristiano. Ora è al sicuro al Cairo, nella casa centrale delle suore».All’interno della chiesa il parroco, padre Peshy Isaac, sta celebrando la Messa. Come ogni giorno, alle 10 in punto. Non ha mai smesso. Si inchina davanti all’altare di pietra, una delle poche cose rimaste in piedi tra le navate. Una decina di fedeli si raccoglie in preghiera sulle panche sopravvissute al fuoco, tra cenere e frammenti di vetro. C’è anche un soldato cristiano, uno dei dieci posti dall’esercito a guardia dello stabile. Uno su dieci, proprio come i copti in Egitto. «L’odio settario non ci deve fermare – dice abuna Peshy – ogni giorno riceviamo nuove minacce, ma continuiamo lo stesso a celebrare la Messa. Il fanatismo va isolato. Del resto abbiamo sempre avuto buoni rapporti con i vicini musulmani. Dopo l’assalto, molti di loro sono venuti ad aiutarci a spegnere le fiamme. E ci siamo riusciti».Già, perché dopo aver appiccato il fuoco alla struttura e fatto scempio di tutto quanto trovato all’interno, gli assalitori hanno bloccato le vie d’accesso, impedendo ai vigili del fuoco di accorrere sul posto, per spegnere l’incendio. «Prima di fare irruzione nell’edificio – dice suor Meriem – avevano dato alle fiamme anche un mezzo blindato dell’esercito, mettendo in fuga i soldati. Ora stiamo iniziando a ripulire lo stabile, in modo da poter rendere funzionali almeno le stanze che si sono salvate dall’incendio. Ci danno una mano i residenti del quartiere. Ogni giorno c’è qualcuno che viene a offrire il suo contributo per rimettere le cose a posto il più presto possibile».Tra le scalinate coperte di cenere si aggirano due ingegneri. È già il tempo della ricostruzione, che non sarà breve né a buon mercato. Per il momento suor Amal e suor Meriem hanno trovato alloggio in un appartamento di proprietà di un cristiano. Suor Matilde e suor Odil, invece, sono riparate al Cairo, nella casa madre di Shubra. Per il pranzo e la cena ci pensano i fedeli, che si sono messi a disposizione delle due suore, nel momento critico. «Non abbiamo più neanche le scarpe per camminare – dice suor Amal – e il 21 settembre inizierà l’anno scolastico. Come faremo? Speriamo solo che non debbano essere i bambini a pagare le spese di questo fanatismo». «Pregate per noi», sussurra abuna Peshy prima di congedarsi. Ha mille pensieri per la testa, ma di una cosa è certo: «Quando facciamo la carità non chiediamo di che fede è la persona – dice –, ci basta una mano tesa e noi rispondiamo».