mercoledì 12 ottobre 2011
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Trentasei morti tra i cristiani copti d’E­gitto non li aveva fatti nemmeno l’at­tentato alla 'chiesa dei due santi', ad Alessandria, la notte di capodanno del 2011. Ha dovuto pensarci l’esercito del 'nuovo E­gitto' a realizzare una simile strage, soste­nendo attivamente i gruppi di estremisti sa­lafiti, che si sono dedicati alla caccia al cri­stiano massacrando sistematicamente quel­li che riuscivano a isolare dal corpo della fol­la, e facendo strage all’interno di quest’ulti­ma con i caroselli dei propri blindati lancia­ti a velocità consapevolmente omicida. Il no­me di 'Piazza dei Martiri', con il quale era stata ribattezzata la Piazza Tahir, per rende­re omaggio ai caduti durante la rivoluzione, fino a sabato sera evocava ricordi comuni e sentimenti di fratellanza tra i musulmani e i copti di Egitto. Da domenica sera le cose non stanno più così, e per ognuna delle due co­munità che insieme com­pongono l’identità egizia­na quella parola 'martiri' evoca persone, momenti e concetti diversi, secondo la peggiore tradizione delle guerre di religione. Il patriarca e il gran muftì hanno lanciato entrambi il loro appello alla modera­zione, ma la collaborazio­ne nel cercare di non ac­crescere ulteriormente la tensione non può e non deve coprire l’attribuzione delle responsabilità, dalle quali le decine di migliaia di copti che protestavano pacificamente sono larga­mente esenti.

La strage di domenica se­gna la fine dell’età dell’in­nocenza della rivoluzione egiziana, e potrebbe aprire una nuova fase, in cui quel­li che a diverso titolo pen­sano di detenere i mezzi di coercizione, la forza del nu­mero, quella dell’organiz­zazione o semplicemente del fanatismo hanno chia­rito che intendono giocare la partita per il potere sen­za concedere granché ai 'comprimari'. Il fat­to che l’esatta dinamica degli incidenti non sia ancora chiarita – l’opacità del sistema informativo resta una caratteristica di conti­nuità tra l’Egitto di Mubarak e l’attuale – la­scia se non altro un margine di ambiguità ri­spetto alle ipotesi più pessimiste, che parla­no di un patto di ferro già sostanzialmente sottoscritto tra esercito e Fratelli Musulmani per la gestione congiunta del potere. Le voci ricorrenti e ricorrentemente smenti­te delle dimissioni del primo ministro Essam Sharaf aggiungono confusione alla confu­sione, anche perché le dimissioni rimette­rebbero il potere nelle mani del Consiglio su­premo delle Forze armate e del suo leader, il generale Hussein Tantawi, cioè il numero u­no di quello stesso esercito che ha sparato sulla folla. Ciò che più preoccupa è però il so­spetto che, al di sotto dell’intesa tra esercito e Fratellanza, si celi uno scontro senza e­sclusione di colpi che proprio l’indulgenza mostrata dalle Forze armare nei confronti delle violenze anticopte e la stessa attenzio­ne nei confronti dei salafiti disvelerebbe: l’in­dulgenza concorrerebbe a prevenire le pos­sibili 'accuse' di laicità che dovessero esse­re lanciate dai Fratelli Musulmani verso i ver- tici militari, mentre l’attenzione contribui­rebbe a rafforzare un potenziale concorren­te della Fratellanza con cui tenerla sotto pos­sibile scacco. Nel frattempo i copti si ritrovano in una po­sizione tragica e paradossale: proprio loro che costituiscono l’anima più antica (pre­islamica e pre-araba) dell’Egitto sono tratta­ti sempre più come un corpo estraneo, se­condo una dinamica già stata vista all’opera nei confronti dei tutte le minoranze cristia­ne nel Levante nel mondo musulmano.

Si tratta di una posizione per molti versi analo­ga a quella degli ebrei nella Polonia tra le due guerre: una minoranza troppo numerosa e troppo evidente per essere ignorata, nei cui confronti montava un sentimento di sorda ostilità che concorse a rendere l’Olocausto meno complicato da perseguire. La gran par­te delle manifestazioni provenienti dalla so­cietà egiziana sono state oggi di solidarietà nei confronti dei copti. E questo non può che confortare. Ma allo stesso tempo gli scontri sono con­tinuati, sia pure in tono mi­nor e soprattutto lontano dalla capitale e l’agenda di questo anno è costellata di stragi e ammazzamenti di copti da parte di folle so­billate ad arte, che ci dico­no che la campagna di ter­rore contro i copti potreb­be persino alimentare una guerra di religione. Le de­cisioni che i vertici militari adotteranno nelle prossi­me ore e fino alle elezioni di novembre potranno for­nirci qualche lume. Ma due importanti prece­denti storici circa il rappor­to tra militari e tolleranza religiosa in area islamica so­no tutt’altro che rassicu­ranti. Il primo è quello pa­chistano. In Pakistan, per meglio preservare il proprio potere dotandolo di una vernice di legittimità che non fosse riconducibile al­la mera forza, il generale golpista Zia ul Haq inflisse una decisa sterzata islami­ca alle istituzioni del Paese, riposizionando le Forze armate come guar­diane della repubblica islamica e tagliando l’erba sotto i piedi alle formazioni tradizionali dell’islamismo politico. Il secondo è quello turco, spesso evocato nei giorni della trion­fale visita di Erdogan in Egitto come possibi­le via di uscita dal caos.

Nel caso egiziano si tratterebbe però di una variante che dovrebbe coniugare la stagione kemalista e quella attuale: da un lato il ruolo dei militari quali garanti delle istituzioni sta­tali (ma non certo della loro laicità) e del po­sizionamento internazionale del Paese ver­rebbe mantenuto; dall’altro, l’islamismo po­litico riceverebbe una definitiva investitura istituzionale nel nuovo Egitto. Al di là della complessità di una simile sincronia, difficile non ricordare il tragico ammonimento della storia: che il varo e il successo del kemalismo (e oggi del suo superamento) furono succes­sivi e in qualche modo dovuti all’operazione di forzata omogeneizzazione etnica e reli­giosa condotta dalle autorità politiche tur­che prima, durante e dopo la Prima guerra mondiale con i metodi che conosciamo. Che nessuna di queste opzioni appaia rassicu­rante per i copti egiziani è drammaticamen­te evidente.

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