giovedì 13 marzo 2014
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Al parallelo con Hitler e la questione dei sudeti l’ha fatto per prima Hillary Clinton: si sa che in politica, come in guerra, tutto è consentito. Ma se è assodato che ormai la Crimea è data per “persa” da tutti, prima fra i tanti Angela Merkel che lo ha fatto capire fin troppo chiaramente al termine del vertice straordinario dei 28 la scorsa settimana a Bruxelles, meno chiaro appare invece il beneficio del palese “sacrificio”. La domanda, fin troppo ovvia, è sempre la stessa: Vladimir Vladimirovic Putin si accontenterà della penisola o chiederà di più? A sentire il nuovo presidente ucraino Oleksandr Turchynov la risposta è no. «Non possiamo lanciare un’operazione militare in Crimea – ha affermato l’altra sera – dal momento che ciò scoprirebbe il confine est e l’Ucraina non sarebbe protetta». E il nodo della questione, lo si è detto più volte, è proprio questo.Se la strategia a lungo termine dello zar del Cremlino è quella di «prendere Kiev per fame», difficilmente spegnerà gli entusiasmi dei filorussi che in queste settimane sono scesi in piazza seguendo l’esempio di Sinferopoli. «Quando colui che ascolta non capisce colui che parla e colui che parla non sa cosa stia dicendo: questa è filosofia», diceva Voltaire. Ma quando qualcuno parla la stessa lingua del Cremlino ha buone probabilità di essere ascoltato. Perché la regione dell’Est, che Kiev condivide con la Russia attraverso un’esile linea di confine lunga 1.400 chilometri, è difficilmente difendibile. E l’ottenere una forma di autonomia rafforzata da Kiev sarebbe il primo passo di un rapido processo centrifugo che priverebbe l’Ucraina delle principali risorse economiche: il carbone di Donetsk, le industrie pesanti e aerospaziali. Lasciando i nuovi governanti con un pugno di mosche, i debiti del gas da pagare e un bilancio statale ben al di là del limite del collasso. Con un’Europa pronta a parole ad aiutare, ma nei fatti alle prese con molte falle da turare in altri scenari, un’America troppo lontana e un Fondo monetario internazionale che sta ancora prendendo tempo.Uno scenario tutt’altro che lontano, vista l’accelerazione impressa in Crimea e gli appoggi sempre più smaccati da parte del Cremlino. Che, per tornare alla Conferenza di Monaco del 1938 e ai sudeti, si ritroverà a dover gestire sanzioni “marginali” da parte di un’Europa con le armi spuntate e che al suo interno è terribilmente divisa. Tutti i Paesi della Ue, infatti, hanno legami con Mosca: l’85 per cento dei capitali che la Russia ricava dalla vendita del petrolio e del gas sono reinvestiti nell’Unione Europea. È vero che uno stop alle forniture del gas stringerebbe il cappio anche alla frammentata economia russa, ma quanti Paesi sono pronti a reggere il confronto? Pertanto l’ovvia domanda iniziale dovrebbe inquietare più che rassicurare i partner europei. Perché Vladimir Putin ha un progetto a lungo termine, che non si ferma alle rive del Mar Nero. Non sarà la politica delle cannoniere di un tempo, ma certamente della paura di un qualcosa che potrebbe riportare indietro di settant’anni il Vecchio Continente.
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