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Fino agli anni Settanta misurava 25mila chilometri quadrati ed era la sesta fonte d’acqua dolce del pianeta. Poi, d’un tratto, il lago Ciad ha cominciato a rimpicciolirsi, fino a misurare meno di duemila chilometri quadrati. Gli abitanti non sapevano spiegarsi la ragione. Gli scienziati, invece, non hanno dubbi: è conseguenza del cambiamento climatico. Il suo impatto è particolarmente forte nella fascia del Sahel, dove il Ciad è situato.
La tremenda siccità degli anni Novanta ha ucciso oltre un milione di persone. Da allora, ciclicamente, la scomparsa anomala delle piogge brucia terra e raccolti, svuotando interi villaggi. Anche la comunità di Melea, poco più di ventimila abitanti sulle rive del lago Ciad, ha rischiato di essere cancellata dalla mappa. I terreni erano troppo aridi o troppo umidi, per le inondazioni repentine. Poi, tre anni fa, sono iniziati i lavori del “polder”, un sistema di dighe rudimentali che ha consentito di recuperare le sponde del lago, trasformandole in campi fertili.
A costruirle sono stati gli abitanti di Melea con l’aiuto di un finanziamento da cinquecentomila euro dell’Unione Europea e del governo tedesco. Sono interventi come questi che consentono alle nazioni più povere di affrontare l’emergenza climatica. Eppure cosiddetto dossier sull’adattamento su cui i negoziatori presenti alla Cop26 non riescono a trovare un accordo.
Le nazioni ricche vogliono che la maggior parte dei fondi climatici sia impiegata per la mitigazione, ovvero il taglio delle emissioni, questione cara al Nord del pianeta. L’emisfero opposto chiede che almeno la metà sia impiegata per far fronte alla crisi già in atto. Anche l’Onu pensa che l’adattamento abbia necessità di maggiori finanziamenti. Per il 2021 si parla di seicento milioni di euro da destinare alle piccole comunità come Melea. Cifre non astronomiche, rispetto agli annunci dei Grandi allo Scottish event campus. Eppure non si riesce a trovarli: finora si è arrivati a malapena al 22 per cento.