Quattro anni e 27 giorni dopo il massacro, il
caso Curuguaty continua ad arroventare il clima politico e sociale del Paraguay. Ieri, il tribunale ha
inflitto pene durissime – dai 4 ai 30 anni di carcere – agli undici contadini ritenuti responsabili della morte di 17 persone durante lo sgombero di un terreno occupato. Le
tomas de tierra (insediamenti abusivi) sono frequenti nel Paese, il primo al mondo per concentrazione della terra in poche mani e citato esplicitamente nella “Laudato si’”: il 2,5 per cento dei latifondisti possiede l’85 per cento della superficie coltivabile disponibile.
Almeno 300mila contadini, al contrario, sono “senza terra”. Sono questi ultimi, in genere, i protagonisti delle occupazioni.
Nel 2012,
70 famiglie si insediarono abusivamente nei terreni dell’azienda Campos Morumb. Il 15 giugno, 250 agenti cercarono di sgomberarli: negli scontri morirono 11 contadini e sei agenti. La strage portò, inoltre, all’impeachment nei confronti dell’allora presidente,
Fernando Lugo e al ritorno al potere del Partido Colorado.
Parallelamente alla vicenda politica, si è svolto il procedimento giudiziario. La
Procura ha incriminato 11 agricoltori, considerati gli organizzatori della protesta. Gli stessi che ieri hanno ricevuto pene esemplari. Nessuno fra agenti e pubblici funzionari – accusati da attivisti e difensori dei diritti umani di “uso eccessivo della forza” -, però, è finito nel banco degli imputati. Le organizzazioni per i diritti umani nazionali e internazionali, laiche e religiose, hanno denunciato, inoltre, varie irregolarità nel processo. La sentenza, dunque, ha prodotto accese proteste: i familiari dei condannati si sono incatenati al cancello del Palazzo di giustizia mentre nel Paese si svolte numerose marce. Lo scorso 8 luglio, i vescovi paraguayani avevano chiesto ai giudici – con una lettera aperta – “assoluta imparzialità” nel pronunciare il verdetto. E, invece, ha detto la Conferenza dei religiosi del Paraguay (Conferpar), rappresentata dal sacerdote gesuita
Alberto Luna, ci sarebbe stata una
“condanna senza prove".