giovedì 22 luglio 2010
Milioni di "desplazados" vittime della guerra della coca. Il drammatico racconto di chi è dovuto scappare per non essere ucciso: «Coltivavo patate, ho rifiutato di piantare la coca e ho firmato la mia condanna a morte».
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«I paramilitari erano nascosti sulla riva del fiume, ma io ho visto il luccicare dei fucili. Mi sono buttato in acqua prima che sparassero. Ho nuotato per ore. Non potevo tornare indietro. Sapevo che mi aspettavano a casa». Così, otto anni fa, è cominciata la fuga di Antonio verso Bogotà. È arrivato nella capitale da San Calixto, nella regione meridionale del Putumayo, a circa ottocento chilometri di distanza, la maggior parte percorsi a piedi. A San Calixto ha lasciato la figlia e la moglie. E un podere agricolo. «Coltivavo banane, patate. I paras volevano costringermi a piantare la coca. Quando ho rifiutato, ho firmato la mia condanna a morte». Per sopravvivere, Antonio è diventato un desplazado ovvero un rifugiato interno. In Colombia se ne contano tra i tre e i quattro milioni. La cifra più alta al mondo dopo il Sudan. A questi, si aggiungono i 380mila profughi – secondo la commissione Onu per i rifugiati (Acnur) – sparsi per il pianeta. Una «moltitudine errante», come la definisce, nell’omonimo libro, la scrittrice colombiana Laura Restrepo. Effetto di una guerra che formalmente non c’è. Il governo del presidente uscente Uribe – dal 7 agosto gli succederà l’ex ministro della Difesa Santos – la nega. Salvo aver investito, per la difesa il 6,5 per cento del prodotto interno lordo e aver portato i militari alla cifra record di 285mila unità. I cittadini delle metropoli – pacificate da otto anni di politica di «sicurezza democratica» ovvero di «tolleranza zero» verso la guerriglia – hanno imparato ad ignorarla. I desplazados la combattono con l’unica arma a disposizione: la fuga. «Sono nata qui sessant’anni fa e non ho mai visto il mio Paese in pace – dice Laura Restrepo –. Siamo una nazione di desplazados. La migrazione è parte della storia umana. I desplazados, però, si spostano sotto la minaccia dei fucili». A far le spese della guerra colombiana è soprattutto la popolazione rurale. Sono le campagne, selvagge e isolate – il sociologo Daniel Pecaut le chiama «mondi separati» dal gioco di sbarramenti creato dalle tre cordigliere – dove l’autorità centrale è più debole e la povertà profonda, il fronte caldo colombiano. Qui, 46 anni fa, nella regione di Tolima, sono nate le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (Farc), principale gruppo guerrigliero di sinistra insieme all’Ejercito de Liberacion Nacional (Eln). E sempre nella Colombia rurale sono sorte le organizzazioni di “autodifesa”: bande paramilitari, armate dai proprietari terrieri – spesso con la complicità dello Stato – per combattere la guerriglia. In mezzo secolo di contrasti feroci e massacri di civili, le diverse parti hanno attenuato fino a smarrire ogni connotato ideologico per trasformarsi in eserciti privati. Che hanno “smembrato” il Paese. Diventando padroni di ampie porzioni di nazione. E, dunque, di risorse. Soprattutto le remunerative piantagioni di coca da cui dipende, in gran parte, la loro sopravvivenza. Ora, lottano per conservarle. Nel 2009 – secondo il rapporto della Consultoria para los Derechos Humanos y el Despazamiento (Codhes) – il conflitto ha espulso dalle regioni rurali oltre 286mila persone, al ritmo di 784 al giorno. Oltre la metà degli sfollati – il 52 per cento – sono donne. Un milione sono bambini. «Vivevamo a Valledupor, in Cesar. Mio nonno era maestro. Un giorno i guerriglieri sono arrivati e gli hanno detto: “Sei un controrivoluzionario. Sparisci o sei morto”», racconta Jorge Daniel, 11 anni. Da sette vive, insieme ai nonni, alla periferia di Bogotà. I genitori avrebbero dovuto raggiungerli ma non sono mai arrivati. Non sa dove siano, dice. Nei sobborghi della capitale abita anche Eider Banderas, 45 anni, della provincia di Cali. Quattro anni fa, un comando delle Farc si è presentato a casa sua. Gli hanno “offerto” di lavorare per loro. Un «no» era fuori discussione. Eider è fuggito quella stessa notte, con la roba che aveva indosso. Ora sopravvive grazie alle mance dei turisti a cui racconta la storia di Bogotà. «Non avevo niente a che fare col conflitto. Era solo un contadino». Né la smobilitazione dei principali gruppi paramilitari, nel 2005, né l’offensiva antiguerrigliera di Uribe hanno messo fine al «più lungo conflitto feudale dell’era moderna», come lo chiama padre Antonio Bonanomi, sacerdote della Consolata, missionario per 19 anni nella turbolenta regione del Cauca. Perché, in primo luogo, i paras non sono scomparsi dalla scena. Dallo scioglimento dei “grandi fronti” – da cui hanno ereditato armi e addestramento – sono nate le cosiddette “bande emergenti”. Lo ha denunciato, tra gli altri, l’ultimo rapporto della commissione Onu per i Diritti Umani sulla Colombia, che attribuisce loro «massacri, minacce, omicidi selettivi». La lotta ai guerriglieri dell’esercito, poi, ha reso ancor più dura la condizione dei civili. Ostaggio dei combattimenti. Farc e Eln – secondo quanto sostiene la Croce Rossa Internazionale – infine, sono state espulse da molte zone ma non sconfitte. Si sono rintanate in alcune roccheforti nel mezzo della giungla, difficili da espugnare. Da cui continuano a colpire. Nell’ultimo anno, avrebbero intensificato gli attacchi. Risultato: nel 2009, ci sono stati 29 massacri con 147 vittime, oltre 500 omicidi, 1650 abusi di vario tipo e desplazamentos di massa. La “cacciata” dei contadini è l’effetto collaterale più visibile del conflitto colombiano di “accaparramento territoriale”. Chi scappa perde tutto. E i signori della guerra – o i loro fedelissimi – incamerano. Gran parte dei quasi dieci milioni di ettari di terra abbandonati dai desplazados ora sono nelle loro mani.
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