La protesta di alcuni manifestanti - Fotogramma
All’ora fissata per la chiusura – le 18 di Baku (le 15 in Italia) – era appena uscita la quarta versione provvisoria dell’accordo finale. Da lì a poco ne sarebbe arrivata una quinta e, nella notte, se ne attendeva almeno un’altra prima del testo definitivo da approvare per consenso nella plenaria, inizialmente programmata per le 22 – con quattro ore di ritardo sulla tabella di marcia – e, poi, slittata progressivamente fino a «non prima» delle 10 di oggi. Per tutto il tempo, centinaia di giovani attivisti per l’ambiente, giunti in Azerbajan da varie parti del mondo per accompagnare le trattative, sono rimasti accampati davanti alla sala principale in attesa dell’esito del duello “all’ultimo dollaro” tra Nord e Sud globale. Il finale di partita della 29esima Conferenza Onu sul clima (Cop29) non ha fatto eccezione rispetto ai vertici che si sono susseguiti negli ultimi due decenni. Lo scontento, però, è stato ancora più palpabile stavolta.
«Qualunque sia il compromesso, ce ne andremo tutti con l’amaro in bocca», ha detto Avinash Persaud, consulente speciale della Banca interamericana di sviluppo, sintetizzando l’umore generale. Mai come nella “Cop della finanza” la linea del denaro ha diviso le potenze industriali storiche – sostanzialmente Usa, Ue, Giappone, Australia, Gran Bretagna, Canada, Norvegia, Nuova Zelanda, Svizzera – dal resto del pianeta. Africa, piccoli Stati insulari, America Latina, Sud-Est asiatico sono arrivati con una richiesta univoca: un contributo annuale di 1.300 miliardi di dollari dal 2035 – trillions o trilioni – per realizzare la transizione energetica in modo da contenere le emissioni e far fronte al riscaldamento globale. I Grandi non contestano la cifra. Confermata dal gruppo di economisti indipendenti – Amar Bhattacharya, Vera Songwe e Nicholas Stern –, chiamato dall’Onu a elaborare la stima delle necessità reali. Sono, però, disposti a sborsare per meno di un quinto del totale, non più di 250 miliardi, come si leggeva all’articolo 8 delle ultime bozze circolate nella lunga maratona negoziale di ieri. Non, però, in forma di finanziamenti pubblici a fondo perduto ma ricorrendo a «un’ampia gamma di risorse». Inclusi, dunque, i prestiti a tasso più o meno agevolato che rischiano di aggravare il debito degli Stati poveri, già sproporzionato. Sono invitate a contribuire anche nuove potenze, considerate, però, ancora Paesi in via di sviluppo, in base alla classificazione fatta dalle Nazioni Unite nel 1992, quando è stata firmata la Convenzione Onu da cui discendono le Cop. Il testo non lo mette nero su bianco ma il messaggio è evidentemente rivolto a Cina, Stati del Golfo e Corea del Sud. Per evitare la rottura con questi ultimi, la partecipazione resta, tuttavia, volontaria. Vecchi e nuovi ricchi hanno, dunque, trovato un punto di equilibrio. Da cui, però, le nazioni a medio e, soprattutto, a basso reddito, si sentono tagliate fuori. Questo spiega la sfilza di reazioni virulente. «Duecentocinquanta miliardi sono una cifra totalmente inaccettabile e inadeguata», ha commentato il negoziatore del Gruppo africano. «Una vergogna», l’ha definita l’inviata delle Isole Marshall, Tina Stege. «Una gabbia che imprigiona qualunque slancio – ha affermato l’Alleanza delle piccole isole –. Domandiamo solo la protezione che ci è stata promessa con gli Accordi di Parigi. Se no ci sarà impossibile accettare. Non è una minaccia. É questione di giustizia».
Non sono solo gli interessati a sostenerlo. Anche per i principali analisti indipendenti la «proposta è troppo debole», come ha dichiarato Luca Bergamaschi, direttore del think tank italiano Ecco. Lo stesso trio di esperti incaricato dall’Onu ha definito la cifra «incosistente rispetto alle necessità». Un compromesso minimo, si vocifera nei corridoi, potrebbe essere una somma tra i 300 e 350 miliardi, perloppiù in forma di aiuti diretti. Ma i Grandi giocano al ribasso. «Le vite dei poveri sono considerate come merce di scambio dai governi ricchi che vogliono pagare il meno possibile. Non sarà possibile mantenere l’aumento delle temperature entro la soglia di equilibrio di 1.5 gradi senza aiutare il Sud globale a unirsi allo sforzo. Ai leader del Nord chiedo: “Ci tenderete la mano o ci tradirete?”», è stato il toccante appello dell’attivista ugandese, Vanesse Nakate. Oggi, forse, ci sarà la risposta.