Torna in auge l’arte della contro-mobilità e dell’assedio terrestre, proliferano nuovi mezzi del genio e gli eserciti si addestrano ormai comunemente alla guerra in città, in centri ad hoc ultra-realistici, estesi per decine di chilometri quadrati. Vi ritrovi i dettagli delle casbah, con i vicoli stretti e gli edifici caratteristici. E non fanno che tornare alla mente i combattimenti di Algeri, fatali ai francesi. Gli interventi americani a Beirut (1983), Grenada (1983), Panama (1989) e Mogadiscio (1993) avevano già suggerito ai comandi di correggere il tiro e di correre ai ripari. Con un obiettivo ben preciso: prepararsi metodicamente alle azioni militari in città e a tutto il corollario che le accompagna, fatto di imboscate, reti di tunnel e cunicoli, palazzi dominanti, cecchini, folle inconsapevoli e mercati innocenti. In città, si assottigliano i vantaggi tecnologici. Ecco perché gli irregolari le scelgono come teatri d’azione elettivi. Qui saltano i comandi accentrati. Si combatte quasi corpo a corpo. L’incedere è lento. Non c’è un fronte. Le trappole esplosive sono ovunque, dissimulate perfino nelle ambulanze. Si lotta per il dominio informativo. E il favore dei civili è spesso il discrimine fra la vittoria e la sconfitta. Il nemico è sfuggente, difficilmente identificabile. Perché a fronteggiarsi non sono due eserciti regolari, ma fazioni terroristiche, jihadisti, ribelli e lealisti. Distinguere fra l’amico e il nemico, fra chi combatte e chi cerca solo di sopravvivere è spesso un dilemma. I regolari non amano la guerra urbana. La città è soffocante, chiusa. Ha strade e vicoli. Spesso la circondano alture. Ogni edificio è come un “mini fort Alamo” da assaltare, al prezzo di alte perdite e fatica delle unità. Certo ci sono i mezzi blindati. Ma da soli non bastano. E per risparmiare gli uomini si eccede talvolta con l’artiglieria. Per i civili è la fine. Nel 1995, a Grozny, è stato un massacro. Sono morti 30mila innocenti, falciati dai mortai e dei lanciarazzi russi. Bombardamenti ciechi, che hanno raso al suolo la città. Non tutti gli eserciti hanno in linea munizioni precise, che costano ancora carissime e sono in itinere. Gli obici tradizionali sono qualcosa di aberrante: alla gittata massima possono sbagliare di 76-136 metri, anni luce dal bersaglio desiderato. Non appena possono, i civili fuggono. Diceva poco tempo fa un operatore di “Medici del Mondo”: «Sapete che cosa è cambiato negli ultimi trent’anni? Prima distribuivamo aiuti umanitari nelle campagne africane. Oggi lavoriamo prevalentemente in città e nei campi profughi adiacenti». Quasi tutti i rifugiati delle guerre odierne sono sfollati da città sotto assedio. Riparano in altre città. È il nuovo dramma della guerra contemporanea. Odioso. Ma tristemente vero. Proteggerli è il minimo che si possa fare. E in questa direzione sembrano muoversi la Casa Bianca e il presidente Obama. Con un ordine esecutivo emanato il primo luglio e diretto al Pentagono, è stata chiesta ai militari maggiore protezione dei civili in guerra. Forse non è ancora abbastanza.
Ogni conflitto recente ha avuto il suo teatro più vile: i centri urbani. Perché sono poli economici, motori dello sviluppo, nodi di comunicazione: colpire lì significa colpire al cuore una società. Isolare e affamare una metropoli è diventato la norma. (F. Palmas)
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