L'incubo di un collasso politico e civile della Repubblica Centrafricana ha preso ieri più consistenza che mai, nel corso di una nuova giornata drammatica segnata sul campo dalla sanguinosa avanzata dei ribelli Seleka, che in serata si sono detti «alle porte della capitale Bangui».Ma segnata anche dalle colonne di civili in fuga e da nuovi tragici resoconti diffusi in particolare dai religiosi rimasti nel Paese, primo bersaglio delle razzie e violenze da parte dei miliziani, che secondo fonti concordanti provengono in gran parte pure dai vicini Sudan e Ciad, ormai con lo scopo dichiarato d’instaurare un regime islamico. Damarà, a una settantina di chilometri dalla capitale, è divenuta il principale teatro degli ultimi scontri. Ma i guerriglieri, al contempo, hanno preso d’assalto diversi posti di blocco lungo le strade che conducono alla capitale. Qui, la tensione ha raggiunto il parossismo e tante famiglie hanno preso la fuga in direzione del fiume Ubangi, sperando d’imbarcarsi alla volta dell’altra sponda, che si trova già nel territorio della Repubblica democratica del Congo.Fra le testimonianze più eloquenti e drammatiche, quella inviata all’agenzia
Fides da monsignor Juan José Aguirre Muños, vescovo di Bangassou, a nome dei tanti religiosi e missionari sotto stretto assedio. «Hanno una lista di persone da colpire: io sono il primo, segue il mio vicario, poi il procuratore ed altri», ha rivelato il presule, fornendo pure un resoconto dettagliato sulle devastazioni, razzie e violenze compiute contro strutture religiose di ogni tipo. Compresi gli ospedali, dove i miliziani non hanno esitato ad infierire sui malati ricoverati. La tregua firmata lo scorso gennaio a Libreville (Gabon) fra ribelli e governo appare già un lontano ricordo. Le speranze di un nuovo cessate il fuoco sembravano ieri appese soprattutto al rilancio della macchina diplomatica al Consiglio di sicurezza dell’Onu, su iniziativa della Francia. Attraverso un portavoce, il Ministero francese degli Esteri ha confermato l’inizio di nuove consultazioni, chiedendo «alle parti di astenersi da ogni ricorso all’opzione militare, il cui unico effetto sarebbe di peggiorare ancora di più la situazione umanitaria e di sicurezza».Fra le altre testimonianze di giornata, anche quella dell’Ong Emergency, il cui centro pediatrico assiste circa 90 bambini al giorno e il cui personale sta già predisponendo misure d’urgenza come la raccolta di vaste scorte di viveri. Il generale François Bozizé, al potere esattamente da 10 anni nella scia del colpo di Stato realizzato nel marzo 2003 contro l’ex uomo forte Ange-Felix Patassé e poi di elezioni fortemente contestate, non è un personaggio impreparato alla prospettiva di essere rovesciato, in un Paese la cui storia postcoloniale è stata di continuo punteggiata da tentativi di golpe più o meno portati a compimento. Fin dall’inizio della loro ultima offensiva, partita lo scorso dicembre dal Nord del Paese, i miliziani Seleka chiedono le dimissioni del capo dello Stato, nel quadro di un’opposizione ormai annosa. Prima degli accordi di Libreville, il Paese aveva già assistito a due altre tregue siglate nel 2007 e 2011. A gennaio, Bozizé ha ribadito di non voler lasciare il potere, avanzando in cambio la prospettiva di un governo di unione nazionale. Un’ipotesi, questa, che si è rivelata ben presto molto teorica.