venerdì 22 gennaio 2021
Da oggi in vigore il Trattato di messa al bando delle armi nucleari. Il cardinale Silvano Maria Tomasi: facciano sentire la loro voce per fermare la corsa al riarmo
Il cardinale Silvano Maria Tomasi

Il cardinale Silvano Maria Tomasi - Gennari/Siciliani

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“Oggi inizia una nuova era, in cui gli sforzi per il disarmo si accelereranno. Si fa strada la convinzione che il solo modo per azzerare il rischio di un loro utilizzo, sia l’eliminazione delle armi nucleari». Il cardinale Silvano Maria Tomasi, scalabriniano, membro del dicastero del Servizio per lo sviluppo umano integrale, ha alle spalle una lunga carriera diplomatica, culminata nella carica di osservatore permanente all’Onu di Ginevra. Il disarmo è stato sempre fra le sue priorità. Non per convinzione ideologica bensì per una questione di sicurezza. Un mondo senza atomica «è un imperativo morale della nostra epoca, che diventa ogni giorno più insicura», afferma. Proprio questo – alla luce anche dell’elevato costo degli arsenali atomici e della mancata realizzazione di passi avanti nel loro smantellamento –, ha spinto la Chiesa ad evolvere la sua posizione negli ultimi anni. È stato il cardinale Tomasi, nel dicembre 2014, a portare alla Conferenza di Vienna il messaggio in cui papa Francesco “archiviava” la dottrina della deterrenza. Fino a definire eticamente inaccettabile non solo l’utilizzo ma anche il possesso delle armi nucleari.

Purtroppo le potenze atomiche non hanno firmato il Trattato di messa al bando delle armi nucleari. Ci saranno quindi cambiamenti pratici sulla questione nucleare d'ora in poi?

È vero, le potenze atomiche non hanno firmato e si sono fortemente opposte al Trattato di messa al bando di armi nucleari del 2017. E tuttavia la sua entrata in vigore costituisce un risultato storico: la comunità internazionale afferma che le armi nucleari sono immorali ed illegali, un consenso destinato ad ampliarsi e a cui va anche aggiunto il supporto dell’opinione pubblica interno agli Stati che detengono questi micidiali strumenti di distruzione di massa e come pure a quelli dei loro alleati che hanno appunto boicottato i lavori di questo processo sin dall’inizio. Per di più, gli Stati non detentori di armi nucleari possono ora utilizzare la leva legale, così come la pressione finanziaria, per promuovere l’obiettivo di un mondo libero dalle armi nucleari. Non ci si illude che le dichiarazioni morali da sole portino al disarmo, ma il cambiamento delle norme, si spera, promuoverà l’avvio di negoziati a quest’effetto. Il 22 gennaio segna dunque una nuova era in cui gli sforzi per il disarmo si accelereranno. Si fa strada la convinzione che la sola via per eliminare il rischio inaccettabile che le armi nucleari siano usate è quella di eliminarle.

L’amministrazione Trump si è distinta per la sua scelta di far uscire gli Stati Uniti da molti trattati di disarmo. Cosa potrebbe cambiare con l’ingresso di Joe Biden alla Casa Bianca per quanto riguarda la politica nucleare?

L’approccio muscolare e divisivo dell’amministrazione Trump ha inferto dei colpi decisivi alle relazioni diplomatiche multilaterali. Queste vanno oltre il tema del disarmo nucleare ma, probabilmente, in nessun altro campo sono così necessarie come nel caso delle armi nucleari che costituiscono una minaccia molto grave alla stabilità internazionale. Penso soprattutto alla dismissione del Trattato dei missili nucleari a raggio intermedio (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty, INF), accordo che storicamente condusse alla distensione Est-Ovest e che ha rappresentato, da allora, una pietra angolare nell’architettura di sicurezza nel Vecchio Continente. Oggi questa fiducia internazionale viene meno perché, come facilmente si intuisce, il tema delle armi nucleari tattiche non riguarda solo lo spazio europeo e si sovrappone alla dimensione tecnologica, oggi altamente sofisticata. Gli esperti ci dicono che mai nella storia l’architettura globale di controllo degli armamenti è stata tanto debole ed incerta tanto da causare un’erosione della fiducia internazionale, anche con riferimento alla stabilità strategica. Il presidente Biden ha, infatti, mostrato la volontà di tornare a una strategia di cooperazione, con l’intento di estendere il Trattato Nuovo Start. Il tempo è comunque estremamente breve per negoziare entro la scadenza del 5 febbraio. Sul piano degli accordi regionali, anche questi compromessi dall’Amministrazione Trump, Biden potrebbe aderire nuovamente al Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) o “Iran deal”: questo sarebbe difficile, visti i danni subiti dall’Iran negli ultimi quattro anni ma, con l’esperienza del presidente Biden e del suo team nelle fasi di negoziazione del trattato originale, c’è speranza di una virtuosa inversione di marcia.

Quali implicazioni potrebbe avere per gli altri Paesi?

Un eventuale successo delle trattative statunitensi per il ripristino del Jcpoa potrebbe, per esempio, rafforzare la cooperazione tra i 5+1. Ciò porterebbe a un ritorno al multilateralismo e a relazioni più forti tra questi Paesi, nonostante i cambiamenti avvenuti negli ultimi 4 anni (la Brexit in particolare). L’Amministrazione Biden dovrà, tuttavia, mantenere un equilibrio con le dinamiche prodotte dai recenti “Abraham Accords”, le cui implicazioni per il Medio Oriente non sono chiare perché risultato di dialoghi diplomatici parziali e non di un processo multilaterale.

È preoccupato per l’accelerazione dell'Iran e per una possibile ripresa della corsa in Corea del Nord?

Come dicevo, poiché gli Stati Uniti hanno lasciato il Jcpoa, sarà più difficile riportare entrambi i Paesi a rispettare le prescrizioni del trattato. L’Iran ha manifestato il suo interesse ad agire in tal senso, ma gli Stati Uniti dovranno dimostrare di essere maggiormente impegnati, dato che molti iraniani probabilmente esprimeranno dubbi circa la loro affidabilità. Per quanto riguarda la Corea del Nord, Biden ha indicato che intende portare avanti una campagna concertata e strategica – con suoi alleati e non, compresa la Cina – a favore di una Corea del Nord denuclearizzata. Anche su questo versante geopolitico, infatti, non mancano gravi squilibri.

La Santa Sede è stato il primo Stato a firmare e ratificare il trattato. Qual è il significato di questo gesto?

Papa Francesco ha dato priorità a questo tema, e la sua rapidità nel decidere l’adesione della Santa Sede al trattato indica la determinazione vaticana nel promuovere un disarmo totale e globale. C’è la convinzione che il raggiungimento di tale obiettivo porterà ad un mondo più sicuro per tutti. Questa dichiarazione morale è stata ascoltata attentamente dai Paesi a maggioranza cattolica e non solo, molti dei quali sono stati tempestivi nel firmare e ratificare il trattato. Inoltre, la Santa Sede ha anche facilitato varie conferenze e negoziati per far avanzare materialmente e concretamente l’entrata in vigore del trattato. Penso all’alleanza virtuosa tra Stati, Società civile e gruppi religiosi che si generò a Ginevra, sede della Conferenza del Disarmo delle Nazioni Unite e di altre attività internazionali di controllo degli armamenti dove la Santa Sede ha partecipato con interventi regolari attraverso il suo Rappresentante, contribuendo al rafforzamento del “disarmo umanitario”, che noi decliniamo come “integrale”, con ciò intendendo che la pace non è materia di esclusiva pertinenza dei decisori mondiali, ma nasce anzitutto nel cuore di ciascuno di noi. Senza uno sviluppo che non si limiti alla crescita economica ma che consideri l’essere umano nelle sue complessità materiali, spirituali e culturali, la pace non è garantita. Lo dimostra bene il tremendo momento che stiamo vivendo con al pandemia che pone un interrogativo molto serio: la sicurezza internazionale si costruisce con la modernizzazione delle armi nucleari o con l’accesso al cibo, l’istruzione, la sanità ed un lavoro dignitoso per tutti?

Nell’enciclica Fratelli tutti, Papa Francesco esprime una forte condanna delle armi atomiche, del loro mero possesso, non solo del loro uso. Come può descrivere questo processo?

L’opinione della Chiesa è evoluta su questo, come su altri argomenti. Nell’enciclica Pacem in terris del 1963, Papa Giovanni XXIII affermava che la deterrenza era moralmente accettabile nel breve periodo, a patto che la comunità internazionale si fosse mossa in modo significativo verso il disarmo totale. Papa Giovanni Paolo II ribadì la stessa posizione nel 1982. Durante il pontificato di Papa Francesco la Chiesa ha intrapreso una revisione della sua posizione affermando che l’uso delle armi nucleari è assolutamente proibito. Poi, alla conferenza di Vienna del dicembre 2014 sulle conseguenze umanitarie delle armi nucleari, ebbi l’occasione di portare un messaggio in cui Papa Francesco affermò che il ricorso a una strategia di deterrenza aveva creato un mondo meno sicuro, chiedendo a tutti i Paesi di non considerare più tale dottrina come una base stabile per la pace, mettendo in questione che lo stesso possesso di armi atomiche è eticamente inaccettabile. Successivamente, nel corso di una Simposio internazionale sulle armi nucleari, ormai già storico, tenutasi in Vaticano nel 2017, Papa Francesco ha ancora affrontato direttamente la questione del possesso di armi nucleari, dichiarando che esso è da condannare fermamente, rigettando integralmente la dottrina della deterrenza. Ha insistito sia sulle gravi conseguenze umanitarie dell’uso delle armi nucleari, sia sul “falso senso di sicurezza” che esse generano. Questo cambiamento è stato motivato da diversi fattori aggiuntivi da lui citati, tra cui l’alto costo delle armi nucleari e la mancata realizzazione di progresso nel disarmo. L’obiettivo di un mondo libero dalle armi nucleari non è solo raggiungibile ma anche un imperativo morale della nostra epoca, che diventa ogni giorno più insicura.

Cosa chiede la Chiesa agli Stati, Italia compresa, che non hanno ancora ratificato il trattato?

Il trattato rappresenta un’opportunità cruciale per gli Stati di tutto il mondo sia per la costruzione di un dialogo internazionale, sia per influenzare le potenze nucleari con la base legale che il trattato fornisce. Per evitare la continua egemonia dei pochi Stati dotati di armi nucleari all’interno dell’ordine mondiale, è giunto il momento che gli Stati non possessori si uniscano per chiedere il disarmo. L’imminente Conferenza di Revisione del Trattato di Non-Proliferazione del prossimo agosto offre a questi Stati una preziosa opportunità per far sentire la propria voce e per perseguire una maggiore cooperazione. Gli esponenti della società civile stanno lavorando per promuovere la comprensione del trattato attraverso dibattiti, “toolkit informativi” e campagne di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, che possano avere un impatto reale sugli Stati. Ciascun Membro della Comunità Internazionale, per quanto piccolo, può svolgere un ruolo importante nel raggiungimento del disarmo nucleare.

Papa Francesco, in Fratelli Tutti, ha rilanciato l’idea di un fondo internazionale con il denaro delle armi, comprese quelle nucleari. Solo utopia o potrebbe esserci un movimento internazionale in questa direzione?

Papa Francesco ha sottolineato come la pandemia porti alla luce le nostre vere necessità e priorità come famiglia umana, e ha incoraggiato una profonda riflessione e cambiamenti attivi verso un mondo più impegnato a costruire sistemi giusti al servizio dei popoli e delle persone. Per questo motivo, il Fondo mondiale – proposto per la prima volta da San Paolo VI – non è solo un obiettivo nobile, ma anche un bene morale. L’aumento degli investimenti in armi nasce da un sentimento di insicurezza, ma una società non può mai essere sicura se non vengono soddisfatti i bisogni essenziali della sua gente. L’istituzione di un Fondo mondiale ridurrebbe il rischio di conflitti, faciliterebbe l’eliminazione degli arsenali nucleari, riallocherebbe i fondi per la realizzazione degli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda ONU 2030, e concretizzerebbe gli impegni degli Stati a favore della sicurezza umana. In effetti, gli intensi negoziati necessari per un’iniziativa di queste dimensioni aumenterebbero la fiducia e la cooperazione internazionali. La pandemia potrebbe fungere da catalizzatore verso questo ambizioso obiettivo. In tempi economicamente difficili per tutti gli Stati – comprese le grandi potenze – è essenziale poter sbloccare fondi per rilanciare l’economia. Diminuire i fondi destinati alla corsa agli armamenti per dedicarli alla ripresa economica è in realtà una scelta strategica per quegli Stati che vogliono mantenere la loro preminenza all’interno del sistema internazionale, perché la loro influenza e il loro potere saranno presto giudicati in base alla loro capacità di riprendersi dalla crisi.

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