il ricovero di SaltilloLA POSADA: DENTRO REGNA LA PACE, FUORI SPADRONEGGIANO I NARCOS«Vedi, quello lì in fondo è un “pollero” (trafficante)… È troppo sicuro di sé, troppo disponibile, estroverso. L’hanno mandato Los Zetas per prendere informazioni e rapire i migranti appena andranno via da questa casa. Ora lo dirò a padre Pedro, così indagherà ed eventualmente lo caccerà», dice Oscar sottovoce. Il giovane fa il volontario nella Belén-Posada del Migrante di Saltillo, uno degli oltre 54 ricoveri della Chiesa sparsi per il Messico. A fondarla, 11 anni fa, è stato il sacerdote Pedro Pontoja. La grande casa bianca – che lo scorso 12 ottobre ha ricevuto il premio internazionale per i diritti umani Letteriel-Moffitt – al momento ospita 130 migranti. Gli ultimi 80 sono arrivati con il treno del mattino da Lechería, vicino a Città del Messico. Per far posto ai nuovi sono stati piazzati dei materassi negli spazi comuni: i letti sono solo 50. La Posada dista solo pochi chilometri dal centro. Eppure sembra un’altra città. Racchiusa dalla Sierra Madre orientale, Saltillo – nel Nordest del Messico – ha il fascino sonnolento delle cittadine coloniali: la cattedrale candida e imponente, il mercato, le fontane. Tutto è pulito e tranquillo. Eppure la narco-guerra è arrivata anche qui. La battaglia tra i trafficanti del Golfo e Los Zetas è esplosa a marzo, con sparatorie, omicidi, sparizioni. «Ora il conflitto si è fatto visibile. La violenza, però, è cominciata ben prima», spiega don Pedro. Già da 5 anni, Los Zetas rapiscono sistematicamente i centroamericani che passano per Saltillo nel viaggio verso la frontiera Usa. «Su cento migranti che ogni giorno arrivano alla Posada, almeno 80 sono stati sequestrati – spiega don Pedro. – Non tutti, però, lo raccontano. Molti sono troppo terrorizzati per farlo».I centroamericani sono “abituati” alla violenza nei loro Paesi d’origine. Le brutalità che infliggono loro i narcos, però, superano ogni immaginazione. «I migranti vengono pestati selvaggiamente con tavole di legno in modo da terrorizzarli e impedire che scappino. Chi lo fa e viene riacciuffato, subisce la mutilazione delle dita o delle mani. A volte, per divertirsi, li obbligano a combattere fra loro come i gladiatori. Per salvarsi devono uccidere i compagni». Spesso i racconti sono così raccapriccianti da risultare inverosimili. «Eppure i segni sui loro corpi sono inconfutabili», aggiunge il sacerdote, anche lui ormai nel mirino de Los Zetas. «La mia équipe ed io riceviamo di continuo telefonate mute: si sente solo il battito del cuore. Ogni tanto ci tagliano la luce, hanno distrutto le nostre auto. È una forma di pressione psicologica. Io non ho paura ma per i volontari è diverso. Molti sono terrorizzati: degli otto che avevamo ora ne sono rimasti solo due... Eppure andiamo avanti. Per i migranti».
il ricovero di SaltilloLA POSADA: DENTRO REGNA LA PACE, FUORI SPADRONEGGIANO I NARCOS«Vedi, quello lì in fondo è un “pollero” (trafficante)… È troppo sicuro di sé, troppo disponibile, estroverso. L’hanno mandato Los Zetas per prendere informazioni e rapire i migranti appena andranno via da questa casa. Ora lo dirò a padre Pedro, così indagherà ed eventualmente lo caccerà», dice Oscar sottovoce. Il giovane fa il volontario nella Belén-Posada del Migrante di Saltillo, uno degli oltre 54 ricoveri della Chiesa sparsi per il Messico. A fondarla, 11 anni fa, è stato il sacerdote Pedro Pontoja. La grande casa bianca – che lo scorso 12 ottobre ha ricevuto il premio internazionale per i diritti umani Letteriel-Moffitt – al momento ospita 130 migranti. Gli ultimi 80 sono arrivati con il treno del mattino da Lechería, vicino a Città del Messico. Per far posto ai nuovi sono stati piazzati dei materassi negli spazi comuni: i letti sono solo 50. La Posada dista solo pochi chilometri dal centro. Eppure sembra un’altra città. Racchiusa dalla Sierra Madre orientale, Saltillo – nel Nordest del Messico – ha il fascino sonnolento delle cittadine coloniali: la cattedrale candida e imponente, il mercato, le fontane. Tutto è pulito e tranquillo. Eppure la narco-guerra è arrivata anche qui. La battaglia tra i trafficanti del Golfo e Los Zetas è esplosa a marzo, con sparatorie, omicidi, sparizioni. «Ora il conflitto si è fatto visibile. La violenza, però, è cominciata ben prima», spiega don Pedro. Già da 5 anni, Los Zetas rapiscono sistematicamente i centroamericani che passano per Saltillo nel viaggio verso la frontiera Usa. «Su cento migranti che ogni giorno arrivano alla Posada, almeno 80 sono stati sequestrati – spiega don Pedro. – Non tutti, però, lo raccontano. Molti sono troppo terrorizzati per farlo».I centroamericani sono “abituati” alla violenza nei loro Paesi d’origine. Le brutalità che infliggono loro i narcos, però, superano ogni immaginazione. «I migranti vengono pestati selvaggiamente con tavole di legno in modo da terrorizzarli e impedire che scappino. Chi lo fa e viene riacciuffato, subisce la mutilazione delle dita o delle mani. A volte, per divertirsi, li obbligano a combattere fra loro come i gladiatori. Per salvarsi devono uccidere i compagni». Spesso i racconti sono così raccapriccianti da risultare inverosimili. «Eppure i segni sui loro corpi sono inconfutabili», aggiunge il sacerdote, anche lui ormai nel mirino de Los Zetas. «La mia équipe ed io riceviamo di continuo telefonate mute: si sente solo il battito del cuore. Ogni tanto ci tagliano la luce, hanno distrutto le nostre auto. È una forma di pressione psicologica. Io non ho paura ma per i volontari è diverso. Molti sono terrorizzati: degli otto che avevamo ora ne sono rimasti solo due... Eppure andiamo avanti. Per i migranti».
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