«Non potevo restare. I miei bambini e mio marito sono malati. Hanno bombardato la mia casa e dei miliziani islamici di Jabat-al-Nusra ci hanno minacciato perché non siamo musulmani. Non possiamo più tornare in Siria». Seduta a terra, Madina abbraccia tre dei cinque figli, lo sguardo determinato malgrado la stanchezza. Madina è di origine curda. Viene dal villaggio di Afrin, vicino ad Aleppo. Per fuggire ha dovuto vendere il piccolo supermarket che gestiva e l’automobile: 2.100 dollari la cifra pattuita con i trafficanti che hanno portato la sua famiglia in Bulgaria. Il rumore delle bombe e degli spari è ormai lontano, ma per la famiglia di Madina i problemi non sono ancora finiti: il piccolo Paese balcanico non ha le forze per accogliere dignitosamente gli oltre 9mila rifugiati – almeno 9.300 dicono i dati della sezione locale dell’Agenzia Onu (Acnur) –, per il 60 per cento siriani, che negli ultimi mesi hanno chiesto protezione a Sofia. L’emergenza è scoppiata ad agosto, con un afflusso massiccio di uomini, donne e bambini in fuga dalla Siria: cento e anche più ingressi al giorno hanno mandato in tilt il sistema d’accoglienza. A fine settembre, i rifugiati erano già seimila: sei volte di più della capienza totale dei tre centri operativi sul territorio. La succursale locale dell’Acnur ha alzato bandiera bianca, così sono state aperte in tutta fretta nuove strutture: due a Sofia (Le scuole in disuso di Voenna Rampa e Vrazhdebna), un’altra nel vecchio campo estivo di Kovatchevtsi e la quarta ad Harmanli, a 50 chilometri dal confine con la Turchia. Palazzine malconce, magazzini, edifici dal tetto sfondato e ampie spianate di cemento. Una struttura enorme, circondata da un alto muro grigio e da un pesante cancello. Così si presenta l’ex campo militare di Harmanli che accoglie circa 1.500 profughi: siriani (circa 1.200), afghani, pachistani, palestinesi e africani provenienti da diversi Paesi. L’edificio, spiega il direttore, è stato aperto prima dell’avvio dei lavori di ammodernamento. E così, per oltre un mese, centinaia di persone hanno dormito nelle tende militari oppure all’interno delle grandi, gelide, camerate interne. Per scaldarsi potevano solo accendere un fuoco o stringersi nelle vecchie coperte ripescate in qualche magazzino dell’esercito. Troppo poco per difendersi dal freddo umido: qui, nel tardo pomeriggio, la temperatura si avvicina già pericolosamente allo zero. «Siamo rimasti nelle tende per 25 giorni, solo da una settimana ci hanno dato questa stanza », spiega Madina. Alcuni stanzoni sono stati suddivisi in tre camere di circa 20 metri quadrati con dei pannelli di cartongesso: in ogni stanza dodici letti a castello per tredici persone, tra cui una donna anziana. È caldo e si sta bene all’interno, ma le condizioni di vita nel campo restano difficili: non c’è acqua calda, i bagni sono insufficienti. «Noi forniamo il cibo una volta al giorno, ma non basta – sottolinea Ivan Cheresharov, giovane referente della Caritas –. Queste persone hanno bisogno anche di cure mediche. Sono, inoltre, individui che hanno vissuto il trauma della guerra. Avrebbero necessità di un supporto psicologico». Inoltre, a differenza degli altri centri per rifugiati, il campo di Harmanli è chiuso da un pesante cancello: nessuno può uscire fino a quando non si saranno concluse le procedure burocratiche per la registrazione. Ma l’Agenzia per i rifugiati non ha personale a sufficienza per completare le procedure. Lentezza e mancanza di informazioni, fanno salire la tensione tra i rifugiati. «Le condizioni variano da campo a campo – sintetizza Boris Cheshirkov, portavoce dell’Acnur a Sofia – ma tutti sono sovraffollati, mancano di personale, il cibo è scarso, le cure mediche insufficienti. Riconosciamo gli sforzi fatti dal governo, ma siamo preoccupati per il freddo». Mentre Medici senza Frontiere (che è stata tra le prime Ong a lanciare l’allarme sulle condizioni dei profughi di Harmanli) ha allestito un ambulatorio er trattare in loco i casi più urgenti. «Ci sono molti minori non accompagnati, soprattutto siriani, donne incinte o con bambini molto piccoli, anziani con malattie croniche. Condizioni che li pongono in una situazione di particolare vulnerabilità», sottolinea il responsabile, Stuart Zimble. Madina, intanto, aspetta i suoi documenti. E ringrazia chi (operatori e volontari) in queste settimane si è prodigato per accoglierli: «Ma noi abbiamo solo un sogno: andarcene. In Germania ho dei parenti. Questo è un Paese povero, non possono fare di più per aiutarci. E io voglio che i miei bambini abbiano un futuro».