Si farà un po’ fatica ma finiremo per doverli imparare, questi due nomi, Ashton e Van Rompuy, perché saranno loro a guidare l’Europa dal 2010. E se li ricorderà bene anche Massimo D’Alema, l’unico per la verità a non essersi mai illuso davvero, ferrigno e spietatamente realista com’è. E quando il capogruppo del Pse Schulz (quello del “kapò” berlusconiano, per capirci) ha rilasciato a mezza bocca quella frase sibillina («Peccato che dietro al vostro candidato non ci sia un governo socialista »), anche noi, osservatori distanti e assiepati dietro al muro di parole, di mezze frasi, di monosillabi gettati al vento per vedere l’effetto che fa, anche noi abbiamo capito che per D’Alema – e diciamolo pure: per l’Italia, prima di tutto – il sogno di Mr Pesc, ovvero dell’Alto commissario agli affari esteri della Nuova Europa era finito. Cadeva D’Alema e al suo posto si stagliava non senza sorpresa il nome della cinquantatreenne baronessa Catherine Ashton, britannica, laburista, già senza troppa gloria commissaria al Commercio ed ora proiettata verso il vertice della diplomazia europea, in grado di soddisfare la necessità di “quote rosa” e insieme di gratificare le aspirazioni inglesi. Cadeva D’Alema e come tessere del domino tramontavano definitivamente le candidature di Tony Blair, di Moratinos, di Miliband, di Mandelson, di tutti quei nomi sventagliati nelle ore della vigilia a testimoniare un grande caos dietro le quinte, così fitte di intrecci bi-trilaterali, di «pizzini» – si è perfino detto – perché gli sherpa avevano deciso di non fidarsi dei telefoni cellulari e portavano messaggi stretti fra le dita, nell’aria tesa di Bruxelles, spazzata da un vento quasi caldo che spolverava il cielo e faceva scintillare ogni cosa. Si potrà strologare a lungo sui motivi dell’uscita di scena dell’ex segretario Ds. C’era un veto israeliano, per esempio (e Tel Aviv ha avuto voce in questa partita), per le sue aperture a Hezbollah e Hamas. E una scoperta diffidenza della Merkel, imitata da Polonia e Ungheria. E c’era da accontentare gli inglesi. Non più mister, ma madame Pesc, dunque. E parallelamente all’ascesa della Ashton la strada verso la presidenza dell’Unione europea per il belga Herman van Rompuy (popolare, come da accordi con il Pse, e forse erroneamente troppo sottovalutato) appariva spianata. Che ne era allora dell’asse franco-tedesco, di quei despoti o presunti tali che fanno e disfano a loro piacimento il Vecchio continente considerandolo roba loro dai Merovingi in poi? Ebbene, non lasciamoci ingannare dalle apparenze, anzi, guardiamolo attentamente questo ticket anglo-belga, segno anche di un’Europa che guarda a Nord dopo un guida iberica. Cosa possiamo dedurne? Che le due cariche assegnate ieri sera dal vertice straordinario dei capi di Stato e di governo sono frutto di una precisa alchimia: quella cioè di dare un profilo piuttosto basso al presidente e al suo rappresentante per gli affari esteri. In modo da non mettere mai in ombra figure di consolidata importanza come quelle di Sarkozy, del pur periclitante Gordon Brown, del rinominato Barroso e soprattutto di Angela Merkel. La quale – non avendo la Germania avanzato alcuna pretesa in questa disputa – potrà in seguito aggiudicarsi la Bce e qualche commissariato di primo piano, come la Concorrenza o gli Affari economici. Rimane un doppio ma serissimo problema: con la Ashton, l’intera diplomazia europea avrà il marchio britannico, quattromila nuovi funzionari verrano selezionati in sostanza dal Foreign Office. Ma il problema più delicato è lei, la baronessa che si è detta «onorata » per l’incarico, ma che di diplomazia non sa nulla e di politica estera ancor meno. «È lì – si maligna –, solo perché donna. E figuriamoci quando vinceranno i conservatori: avremo un ministro degli Esteri guidato da un governo euroescettico...». Alla luce di queste scelte, verrebbe da dire che i leader europei in questo Trattato di Lisbona credano poco. O piuttosto che non vogliono rinunciare al primato delle singole cancellerie, antico ma comprensibilissimo vizio, che non a caso aveva ridotto la figura di Javier Solana a quella di puro contorno. Non parrebbe, visto il profilo della Ashton, che le cose siano destinate a mutare granché. «Ce lo vedete Obama che telefona a Rompuy? O piuttosto non chiamerà direttamente Berlino, o Parigi?», sghignazza un ministro spagnolo. Un po’ ha ragione: il vecchio teorema di Henry Kissinger («Che numero devo fare se voglio parlare con l’Europa? ») ritorna come uno spettro amletico: dall’anno prossimo si dovrà comporre il numero dell’attuale premier belga, o quello della baronessa. Saranno loro due a portare la bandiera stellata dell’Unione europea. E dietro di loro ricomincerà il grande mercato delle poltrone. Oltre alla Commissione, la presidenza dell’Eurogruppo, la Banca centrale europea, le tante caselle da rinnovare, i tanti appetiti nazionali (italiani compresi, che a questo punto rimettono in gioco una poltrona, quella di Tajani ai Trasporti, probabilmente) da soddisfare. Van Rompuy ha promesso di essere un presidente dell’«ascolto» e di aver accettato la nomina «con entusiasmo e convinzione». Ma la vera partita delle nomine, tutti lo sanno, non è neppure cominciata.