sabato 22 giugno 2013
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Secondo un recente sondaggio pubblicato sulla Folha de São Paulo – il grande quotidiano liberal della metropoli brasiliana – la popolarità della presidente Dilma Rousseff è in netta caduta per la prima volta dal suo insediamento nel Palacio de Alvorada di Brasilia, il primo gennaio di due anni fa.Il sostegno popolare per la Presidente resta alto (57 per cento, contro il 65 di tre mesi fa), ma il suo cammino verso la rielezione (e verso il quarto mandato presidenziale consecutivo per il PT, il Partito dos Trabalhadores fondato dal suo predecessore, Luis Ignacio Lula da Silva), si potrebbe rivelare più impervio del previsto. Se la posizione della Rousseff rimane solida, nell’ultimo mese la prospettiva di una rielezione quasi scontata appare più problematica. Cos’è successo nel Brasile delle meraviglie, grande potenza economica in piena ascesa (negli scorsi anni ha superato Italia e Gran Bretagna e con il 7° Pil del mondo insegue da vicino la Francia), che i governi PT rivendicano – in maniera un po’ audace – di condurre gradualmente alla eliminazione della povertà? La domanda ha un rilievo particolare alla vigilia di quattro eventi globali – tre sportivi e uno religioso – che nel prossimo anno accenderanno ulteriormente i riflettori sul gigante sudamericano: la Confederation Cup, attualmente in corso; la Giornata mondiale della Gioventù, prevista per questa estate, i campionati mondiali di calcio del 2014 e – infine – le Olimpiadi di Rio de Janeiro del 2016. A queste scadenze il Brasile contava – e conta tuttora – di arrivare come un Paese maturo. Segnato da oltre mezzo secolo da una profezia incompiuta – la definizione di Stefan Zweig come “Paese del futuro” –, il Brasile ha più volte tentato di fare il salto nella piena modernità: negli anni ’50 il Presidente Juscelino Kubitschek promise di realizzare la modernizzazione durante il suo mandato, condensando «cinquanta anni in cinque», ma se il simbolo di questo progetto (la costruzione di Brasilia) venne effettivamente realizzato entro la conclusione del suo mandato, la modernità giunse in quegli anni più nella forma di un radicale cambiamento del volto delle città brasiliane che della compiuta costruzione di una stabile democrazia del benessere: appena tre anni dopo la fine del mandato di Kubitschek furono i militari a tentare la loro via (anch’essa in parte riuscita, dal punto di vista economico) alla modernizzazione.Dopo il ritorno alla democrazia e le nuove crisi economiche degli anni ottanta e novanta, furono dapprima la presidenza di Fernando Henrique Cardozo (1994-2002) – l’artefice della stabilizzazione economica e del consolidamento democratico – e poi quella di Lula – col tentativo di dare una dimensione sociale all’economia brasiliana – a compiere passi decisivi per trascinare il Brasile dal terzo al primo mondo (dimensioni, queste ultime, che convivono al suo interno). Sicché lo scorso decennio è sembrato codificare la condizione del Brasile come “Paese del presente”, potenziale gigante globale con un solido pedigree democratico.

L’organizzazione dei grandi eventi sportivi sopra ricordati doveva essere il momento della consacrazione formale dello sviluppo brasiliano. Anche l’elezione di Dilma Rousseff alla presidenza alla fine del 2010 sembrava leggibile in questa prospettiva di modernizzazione politica, economica e sociale. Dilma si è trovata a gestire la difficile eredità di un presidente come Lula, assai popolare e talora mitizzato nella stampa internazionale. Ha scelto un profilo basso, essenzialmente gestionale. Ha mantenuto la misura sociale creata dal suo predecessore, la Bolsa familia, che attribuisce un reddito minimo di 734 reais (circa 250 euro) a chi è al di sotto del salario minimo, costruendo, in tal modo, un bacino di consenso elettorale sicuro nel sottoproletariato.

Sulle altre questioni, ha navigato a vista, cercando di raggiungere compromessi su ogni grande questione sociale e politica conflittuale, dalla disciplina delle unioni gay, all’aborto, alla questione india. Un tasso di disoccupazione molto basso, il controllo dell’inflazione e il tentativo di far fronte alle monumentali diseguaglianze ben visibili nella società brasiliana hanno rappresentato il contesto nel quale la sinistra brasiliana ha tentato di costruire un modello diverso sia dalla terza via liberale di Cardozo, sia dalle sinistre populiste dominanti in Argentina, Venezuela, Bolivia ed Ecuador, alla cui famiglia, peraltro, lo stesso PT fondamentalmente appartiene. E questo stile è sembrato un mix vincente, idoneo addirittura a sostituire quell’ingrediente essenziale della leadership che è il carisma, posseduto in grande quantità da Lula, ma in misura molto inferiore da Dilma.I nodi non sono tuttavia scomparsi e in questo mese sembrano riemergere anche dal punto di vista politico: la crescita del Pil nel 2013 si limiterà al 2 per cento, che, se può apparire invidiabile da un punto di vista europeo, non lo è alla luce delle enormi sacche di povertà che il Brasile ancora presenta. Alla crescita ridotta si è poi aggiunta una inflazione piuttosto elevata (attorno al 6,5 per cento per il 2013, con prospettiva di riduzione al 6 per cento nel 2014), che incide su un sistema di prezzi già alti. Al tempo stesso lo scenario politico è in movimento. Se la coalizione sinistra-destra che sostiene Dilma mostra qualche incrinatura (il suo principale alleato, il PMDB, potrebbe avere un candidato proprio alle prossime presidenziali, nella persona del governatore del Pernambuco Eduardo Campos), l’opposizione al sistema PT si è riorganizzata e sembra aver trovato un leader con buone potenzialità di successo. Il principale partito di opposizione, i socialdemocratici (che governarono negli anni ’90 con Cardozo) ha eletto a maggio come presidente l’ex governatore del Minas Gerais, Aecio Neves, che rappresenta un cambio generazionale rispetto ai due leaders liberali che hanno conteso la presidenza al PT dal 2002 al 2010 e che erano entrambi espressione del principale Stato della federazione brasiliana, São Paulo. Neves, inoltre, è il rampollo di una importante famiglia politica: suo nonno, Tancredo Neves, è il simbolo del ritorno del Brasile alla democrazia. Nel 1985, per giungere in tempi regolari alla transizione che avrebbe chiuso vent’anni di regime militare, ritardò un intervento chirurgico finendo per morire prima dell’insediamento, divenendo così il martire della democrazia brasiliana. Il nome e lo stile di Aecio Neves, e il ricordo positivo degli anni di governo di Cardozo potrebbero rendere più incerte le prossime elezioni, che il clientelismo assistenziale del PT e lo sviluppo economico brasiliano sembravano aver orientato in chiave continuista. In ogni caso, questo è un segno della vitalità della democrazia brasiliana, che nei 25 anni trascorsi dall’entrata in vigore della Costituzione del 1988 (oggetto in questi mesi di varie celebrazioni) sembra aver finalmente costruito quella istituzionalizzazione e moderazione del presidenzialismo che era mancata nel primo secolo di storia repubblicana (1889-1988). Anche da questo punto di vista, quella brasiliana è una storia a parte, in un contesto latino-americano che, a dieci anni dalla svolta a sinistra, appare ancora dominato da populismi a vocazione egemonica e dall’instabilità istituzionale.

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