Il caso della "colonia Barbero" è solo una delle migliaia di conflitti agrari in corso in Paraguay. Anzi, come afferma Luis Rojas Villagras, ricercatore del centro Base di indagini sociali, l’intera storia sociale del Paese ruota intorno alla lotta per la terra. Il caso più emblematico è stato probabilmente il massacro di Curuguaty, durante lo sgombero di un terreno occupato da contadini, nel 2012. L’eccidio è costato l’incarico all’allora presidente Fernando Lugo. Nonostante l’eco mediatica, a tre anni di distanza, però, la ricostruzione della vicenda è ancora dubbia, come denunciato di recente dall’associazione Conamuri. E i "fronti aperti" si moltiplicano. Anche se, la maggior parte delle volte, gli scontri tra agricoltori e latifondisti restano invisibili. Il Paraguay "vanta" il record mondiale di concentrazione in poche mani della proprietà agricola. L’indice di Gini – che le agenzie internazionali impiegano per misurare la distribuzione dei terreni coltivabili in una nazione – è 0,93 (il massimo è 1), secondo la Fao. Barbados – isola-hotel extralusso e paradiso fiscale –, con il suo 0,94, è fuori concorso. A tal proposito, il Paese viene espressamente menzionato nella Laudato si’. Papa Francesco cita il forte reclamo fatto, nel 1983, dai vescovi paraguayani sul diritto alla terra: «Ogni contadino ha il diritto naturale a possedere un appezzamento ragionevole di terra, dove possa stabilire la sua casa, lavorare per il sostentamento della sua famiglia e avere sicurezza per la propria esistenza. Tale diritto dev’essere garantito perché il suo esercizio non sia illusorio ma reale. Il che significa che, oltre al titolo di proprietà, il contadino deve contare su mezzi di formazione tecnica, prestiti, assicurazioni e accesso al mercato».
Purtroppo, tuttora, non accade. Le cause sono storiche. «La struttura latifondista della terra in Paraguay è nata dopo la sconfitta nella guerra contro la triplice alleanza, nel 1870 – dice ad Avvenire Rojas Villagra –. Allora, piccoli contadini e indigeni subirono un esproprio di massa e i terreni pubblici furono venduti all’oligarchia straniera e nazionale per pagare i danni del conflitto. La dittatura di Stroessner, tra il 1954 e il 1989, ha impedito l’attuazione di una riforma agraria. La gestione "personalistica" della proprietà fondiaria da parte del regime per premiare i propri collaboratori ha, al contrario, acuito le disparità». Il ritorno alla democrazia non ha migliorato la situazione. «Anzi, l’espansione della soia l’ha peggiorata», aggiunge Ramón Fogel, sociologo del Centro de estudios rurales interdisciplinarios. La coltivazione si è affermata agli inizi degli anni Duemila, dato l’alto prezzo del legume sul mercato internazionale per la produzione di biocombustibili. La redditività del business ha stimolato l’accaparramento di terra da parte degli imprenditori agricoli, soprattutto brasiliani. La pressione sui piccoli proprietari, incapaci di reggere la concorrenza per mancanza di mezzi tecnici e finanziamenti, si è accentuata.
«Ogni anno, 100mila di loro devono lasciare la campagna per finire ad affollare le baraccopoli di Asunción o Ciudad del Este. Persa la proprietà, solo pochi trovano lavoro come braccianti nei campi di soia. L’agricoltura da esportazione è altamente meccanizzata e richiede poca manodopera», sottolinea Fogel. L’esodo verso i sobborghi urbani già sovrappopolati cresce: se nel 1992 gli agricoltori erano la metà della popolazione, nel 2012 erano appena un terzo. «Le 650 comunità indigene sono le più vulnerabili. Vengono cacciate giorno dopo giorno», racconta ad Avvenire Óscar Ayala, dell’associazione Tierra Viva. La politica – dati gli stretti vincoli con le oligarchie fondiarie – chiude gli occhi. «O, peggio, il governo sostiene direttamente i latifondisti della soia – aggiunge l’esperto –. Le autorità sono inermi di fronte agli abusi e ai ricatti con cui obbligano i contadini a lasciare le terre». Le monocolture del legume ormai si estendono per 3,2 milioni di ettari. Al danno sociale si somma quello ambientale: per "proteggere" il business, i campi vengono innaffiati con 24 milioni di litri di agrotossici all’anno. La fame di terra, inoltre, alimenta la deforestazione: nel solo 2013, nel Chaco paraguayano, sono scomparsi 1.400 ettari di vegetazione al giorno. «Al contempo, si affermano altre monocolture: il mais transgenico, il riso, gli eucalipti, oltre agli allevamenti intensivi», dice Rojas Villagras.
L’agro-business da esportazione non fa che riaffermare e incrementare la concentrazione della proprietà. In base all’ultimo censimento agricolo, tra il 1991 e il 2008, il numero di appezzamenti si è ridotto da 307mila a 289mila. La loro superficie, però, è aumentata, in media, del 30 per cento. Attualmente il 2,5 per cento delle tenute comprende l’85 per cento della superficie coltivabile disponibile. Per contro, secondo varie stime indipendenti – data l’assenza di dati ufficiali – almeno 300mila famiglie sono prive di terra. Il problema è evidente. Anche la soluzione, affermano gli esperti: la riforma agraria. «Fin quando non ci sarà una distribuzione più equa della terra, il Paraguay non potrà sviluppare un modello produttivo inclusivo e sostenibile – conclude Rojas Villagra –. E la nazione continuerà ad essere un serbatoio di materie prime, sottoposto alle fluttuazioni del mercato internazionale e incapace di avviare un processo di industrializzazione. La lotta al latifondo è una lotta, dunque, per una crescita diffusa». I 10mila contadini di colonia Barbero ne sono convinti. Per questo ripetono: «Non ci arrendiamo. Continueremo a reclamare, senza stancarci. Alla fine, la giustizia dovrà darci retta. È in gioco il futuro. Nostro e del Paraguay».